È un’Italia per vecchi Ma l’età non conta se si premia il merito

di I più vecchi sono i dirigenti delle banche e i vescovi, poi i professori, i boiardi di Stato, i sindacati, i ministri, i politici, alla fine arrivano i manager delle aziende private, che in questa Italia con i capelli bianchi sono ancora dei giovanotti. È quello che racconta uno studio della Coldiretti e dell’Università della Calabria, specchio di una realtà che non è difficile da immaginare. Basta guardarsi intorno. Non c’è stupore. L’Italia è vecchia, nell’età, nella nostalgia, in questo passato che sembra ritornare sempre, nelle facce che si vedono in tv, nei discorsi e nelle promesse di chi ti fa le prediche. Sono vecchi gli intellettuali, i poltronisti, chi difende i lavoratori e i dipendenti pubblici. Sono vecchie le vecchie glorie. E sono vecchie perfino le nostre speranze. Eppure non è l’età il vero malanno di questo Paese. Non è detto che le canizie e le rughe siano di per sé un male. C’era un tempo in cui la saggezza apparteneva ai vecchi. Ci sarebbe l’esperienza e il sangue freddo, la calma e il rispetto. I romani giudicavano i loro senatori non solo in base al coraggio, ma con l’auctoritas e la dignitas. C’era perfino un cursus honorum da rispettare nelle varie tappe della vita politica. Un questore doveva avere almeno 30 anni, un edile 36, un pretore minimo 39, un console 42. Età non paragonabili a quelle di oggi. E comunque uno non certo privo di ambizione come Cesare rispettò, a differenza del meno nobile Pompeo, gli anni giusti. Non spaventa quindi l’età, il problema è il resto.
Il punto fragile è come viene selezionata la classe dirigente italiana. Dietro questa vecchiaia spesso, e purtroppo, non c’è il merito. È un’élite che sceglie i suoi adepti per partigianeria, perché assicura alle caste di sopravvivere nella più quieta mediocrità. Li sceglie solo per somiglianza, perché il loro modo di pensare è orecchiabile e già sentito. È come se prevalesse sempre la logica delle canzonette di Sanremo. La classe dirigente si riproduce scegliendo la melodia più scontata. Lo strappo e la dissonanza sono un malus. Oltretutto uno dei criteri in cui si fa carriera in buona parte delle strutture è l’anzianità. Si va avanti invecchiando. È come se il tempo fosse il valore fondamentale nella scelta degli uomini. L’Italia d’altra parte ha da tempo abdicato alla sua creatività. Non è la Silicon Valley, dove l’idea conta di più del restare parcheggiati in un ufficio il più a lungo possibile. L’Italia è il Paese dove anche gli stipendi sono legati all’anzianità. Non siamo vecchi non per età ma per cultura. È una vecchiaia quotidiana, che cresce giorno per giorno e si nutre del tirare al campare. Il simbolo di questa filosofia sono i dipendenti pubblici. Sono loro che fanno tendenza. Ed è così che l’Italia è diventata un ministero.
Questa abitudine, questa visione del mondo, resiste qui da anni e anni. Poi alla fine dell’altro secolo è successo ancora qualcosa di più nefasto. L’Italia è caduta in una palude, dove ogni mobilità sociale è stata frenata. Gli outsider sono rimasti fuori. L’esempio più classico è quello dell’università. Un tempo la laurea permetteva ai figli delle classi meno ricche di migliorare la propria condizione di partenza. Ma se l’università diventa troppo facile, se la laurea è un pezzo di carta e tutti i pezzi di carta sono uguali, se si cancella la meritocrazia, si fa il gioco dei figli di papà. È come un giro d’Italia dove togli le salite. Non permetti ai più bravi di cancellare l’handicap di partenza. La fine della storia è che i ricchi restano ricchi e i poveri non hanno la possibilità di emergere. Questo è successo in molti campi. Altro esempio. Se rendi sempre più difficile fare impresa chi ci rimette? Quelli che già hanno l’azienda o quelli che sperano di crearla dal nulla?
Si sono chiuse, di fatto, tutte le vie che un tempo permettevano il passaggio dall’esterno verso l’interno o dal basso verso l’alto. Solo pochi varchi ben controllati sono stati lasciati aperti. È accaduto che vent’anni di crisi economiche hanno spinto quelli che stavano nella cittadella del potere e dei privilegi ad arroccarsi. È come se si fossero create due repubbliche del lavoro, quella dei garantiti e quelli senza contratti. L’obiettivo dei primi era mantenere lo status quo. Gli altri si sono adattati a una vita precaria, senza certezze. Il dialogo tra gli uni e gli altri si è interrotto. Chi era dentro si è barricato, chi stava fuori premeva inutilmente contro le mura. Ogni tentativo di riforma è stato sommerso dalle chiacchiere e dai no delle élites fortunate e sempre più vecchie. A quanto pare neppure i tecnici hanno avuto la forza o la volontà di cambiare le cose. Anche perché neppure a loro conveniva cambiare.
Il risultato è questo. L’età media di presidenti e amministratori delegati delle banche è 67 anni. È, curiosamente, la stessa dei vescovi. I ministri del governo Monti hanno in media 64 anni. In Parlamento, nelle due ultime legislature, sono stati eletti soltanto due under 30. I dirigenti pubblici fanno una media di 57 anni. Come i sindacalisti. Il parastato sale a 61.

I professori universitari italiani hanno in media 63 anni, i più anziani del mondo industrializzato. Un quarto di loro ha più di 60 anni, mentre in Francia e Spagna sono il 10 per cento e in Gran Bretagna l’otto per cento. Sono i numeri nudi di un Paese pronto per la pensione.

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