Keith Jarrett alla Scala 12 anni dopo

Domani ritorna al Teatro alla Scala (ore 20) Keith Jarrett per un concerto di solo pianoforte. Dalla sua prima esibizione nella sala del Piermarini, il 13 febbraio 1995, sono trascorsi più di dodici anni. Per Jarrett si tratta di una rivincita personale, perché nel 1996 si ammalò di una grave «sindrome da affaticamento cronico» e dovette sospendere del tutto l'attività solistica. Molti sostengono che la sindrome sia stata provocata, perlomeno in gran parte, proprio dalle sue improvvisazioni solitarie prive di soluzioni di continuità che spesso (come alla Scala) duravano anche un'ora e mezzo, richiedendo uno sforzo psicofisico quasi mostruoso. Nel 1998, quando la malattia non era ancora risolta, il teatro gli propose un nuovo concerto solistico e Jarrett volle accettare, sebbene i medici lo sconsigliassero e gli amici gli suggerissero di suonare con il suo trio stabile, con Gary Peacock al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria, per richiedere a sé un impegno minore. Ma Jarrett firmò come solista e all'ultimo momento dovette rinunciare.
Passò del tempo, anche a guarigione più o meno acquisita, prima che osasse riprovarci. A memoria ricordiamo un concerto a Osaka nel 2002. In Italia ha suonato sicuramente all'Auditorium di Roma nel novembre 2004 e poi alla Fenice di Venezia nel luglio 2006. Ma si è capito subito che il maestro si era fatto più prudente. Non più maratone improvvisative ma brani di cinque-dieci minuti, staccati e diversi, in modo da rifiatare fra l'uno e l'altro. È quello che ci si può attendere da lui, domenica, in questo concerto organizzato dal Fai, il Fondo per l'Ambiente Italiano, esaurito in ogni ordine di posti da più di un mese.
In un certo senso c'è un ritorno al Jarrett pianista dei primi anni Settanta, ma arricchito di tutto ciò che è accaduto dopo, in lui e intorno a lui. Si può citare il suo primo memorabile album solistico per la Ecm Records, Facing you del 1972, dove Jarrett, negli otto brani del disco, mostra una perfetta indipendenza delle mani e le doti di tecnica, tocco e tatto che la critica, nell'ambito della musica classica, aveva riconosciute a Nikita Magaloff. Jarrett improvvisa la sua musica come un flusso continuo che si svolge nel presente, da un silenzio iniziale a un silenzio finale. È una dazione di sé senza rete, un'autobiografia istantanea nella quale il tempo musicale si identifica con il tempo reale, secondo la lunga linea continua del jazz nella quale composizione ed esecuzione coincidono.

Ma poi il maestro, anche in esecuzioni di pochi minuti, ha imparato a rispecchiare e a frantumare nelle proprie note Bill Evans, ragas indiano, Stephen Foster, Chopin, Dave Brubeck, Beethoven, Cecil Taylor, Bud Powell, il blues, Rachmaninov, il gospel, Bach e tanto altro, tutto insieme. Ancora una volta staremo a sentire, a verificare, ad ammirare e a cercar di separare (ci si permetta questa allusione) l'artista dall'uomo.

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