nostro inviato a Nairobi
Immaginatevi una discarica gigantesca, moltiplicatela per dieci e popolatela di due milioni e mezzo di abitanti. Più o meno avrete in mente gli slum di Nairobi. Una metropoli spezzettata e gettata a caso nel caos di una grande città africana, un’ode all’irrazionalità e all’arte di arrangiarsi. Migliaia di baracche dalla faccia di arlecchino, di ogni colore, costruite con materiali di risulta: copertoni, fango, cartoni, lamiere di un qualche prodotto alimentare. E migliaia di bambini, vestiti di nulla, che saltellano in mezzo al fango. E poi c’è un paradosso, geniale e feroce proprio come la spontaneità di chi lo crea: appena una macchina con a bordo degli occidentali si infila tra le baracche, un codazzo di bambini in festa le si fa appresso. Alzano le manine nere dal palmo candido verso i finestrini e ripetono in coro una domanda a cui non sai rispondere: “How are you? How are you?”. Che suona un po’ come un monito, noi ci prendiamo cura di voi, e voi cosa fate per noi? Nella periferia del mondo l’umanità ha ancora questo carattere. E chi ha niente cerca comunque di darti qualcosa, fosse anche una stretta di mano o un sorriso sdentato.
Tra cibo, spazzatura e fango Nairobi è una metropoli da quattro milioni di abitanti, più della metà ammassata nelle baracche. Eppure si può transitare per la città senza inciampare in questo inconveniente, sono una zona traffico limitato del turista e della coscienza. Sorgono dove meno te lo aspetti, a dieci minuti dalle ambasciate in stile vittoriano o - come Korogocho una delle più popolose -, a ridosso di Dandara una delle discariche più grandi di tutta l’Africa. Una montagna di rifiuti su cui brucano centinaia di persone in cerca dello scarto dello scarto, un qualcosa che sia ancora utilizzabile, per rattoppare una parete o costruire un tavolo. Lo slum è un frullatore sensoriale. I colori accesi, la terra sconnessa sotto i piedi e l’odore pungente di animali, cibi putrefatti, urina e feci che non se ne va per ore dalle narici ne sono la cifra distintiva.
Il sogno fuori dalle baracche Tra la spazzatura e le case diroccate, accanto agli scoli delle latrine, sorge un mondo esattamente come il nostro. Ricavato in un budello di lamiera che sembra una scatola di tonno gigantesca c’è un parrucchiere e l’insegna promette “trattamenti di bellezza a basso costo”. Perché i bisogni, le necessità e le ambizioni sono uguali a quelli che abbiamo noi. Ed è questo che fa male. Poco più avanti, in un baracchino ambulante, sono in vendita sigarette sfuse, pesci essiccati e legumi. Una donna, seduta per terra ad allattare un bambino minuscolo, vende un casco di banane a 100 scellini, circa un euro. Poco per noi, molto per loro. Lo stipendio medio si aggira sui 60 dollari al mese. E poi i vestiti, perché nel fango e tra i liquami, la dignità ha un suo valore. “La mattina – ci racconta un insegnante keniota- , molti di loro escono dalle baracche vestiti di tutto punto e vanno in città a lavorare o a cercare un impiego”. Appena finisce la strada sterrata c‘è il rito della pulizia delle scarpe, come se portando via una crosta di fango si spazzasse via il peccato originale di vivere in un ghetto. Ognuno ha diritto a mangiarsi un pezzo di sogno e immaginarsi una via d’uscita. E il sogno è fatto anche di icone, simboli che facciano sembrare il traguardo più vicino. L’ultimo respiratore attaccato all’immaginario di questo popolo è Barak Hussein Obama, sua nonna abita ancora a qualche centinaio di chilometri da Nairobi. La sua faccia spicca sui banchetti e nelle librerie come una speranza di fuga.
Aids, alcol e violenza E poi le malattie. Tutte quelle che possono attecchire in un carnaio senza nessuna misura igienica, neppure la più elementare. Il sistema fognario si riduce a uno scolo a cielo aperto che marcisce ai bordi delle strade. Ma è un lusso. E qui il lusso è un alieno che lampeggia dentro qualche televisore. Per cui ogni angolo, ogni anfratto, si trasforma in una latrina a cielo aperto. Il 50 per cento del popolo keniota ha meno di 18 anni, incontrare un anziano per la strada è praticamente impossibile. “La speranza di vita negli ultimi anni si è accorciata, ora è ferma ai 47 anni. La colpa è principalmente dell’Aids. Il virus dell’Hiv ha avuto una crescita incredibile negli ultimi anni, solo ora sembra essersi stabilizzato”, racconta il dottor Gianfranco Morino, medico che da 25 anni lavora in Kenya. L’Hiv è un mostro che si sta divorando l’intero continente, una ferita per cui non esistono ancora punti di sutura. Entrando in una scuola degli slum, si ribalta la famosa pubblicità che negli anni ottanta avvisava gli italiani del pericolo dell’Aids. Qui l’alone viola ce lo abbiamo noi, noi che ci muoviamo come elefanti in cristalleria, timorosi di toccare qualcosa o di dover rifiutare una qualche vivanda offerta. Noi che siamo sani. Perché l’incubo dell’occidente prende corpo nei ghetti dell’africa nera, dove il cibo è un miraggio e la salute una chimera. “E’ come se qui fosse scomparsa una generazione, quella di chi ora dovrebbe avere quarant’anni – ci racconta il volontario di una ong -, l’hiv ha spazzato via i genitori di moltissimi bambini e c’è un’altissima percentuale di orfani”. Bambini abbandonati che vivono nei vicoli degli slum. “In Africa è praticamente impossibile rimanere soli, questo è un continente fatto di cugini. Ognuno ha un numero indefinito di cugini, ma spesso la condizioni abitative sono disperate e la violenza, anche sessuale, è all’ordine del giorno”. La polizia non entra nei ghetti e il servizio sanitario nazionale, di buon livello per un paese del terzo mondo, è a pagamento. Chi sta male si cura da solo o non si cura e basta. Alcolismo, pedofilia e violenza sessuale sono drammi che gli abitanti delle baraccopoli conoscono sin da piccoli. “Molti uomini si ubriacano di chang'a, un liquore che viene confezionato in casa. Negli slum, per renderlo più forte, mettono anche degli acidi, delle benzine e in alcuni casi anche gli alcali delle batterie delle auto. Molte persone sono morte negli ultimi anni e chi non muore impazzisce, ha le allucinazioni e diventa violento”. Solo nel 2005 48 persone sono morte nella zona di Machakos per aver bevuto una partita di liquore tossico, altre 84 sono state ricoverate. Storie di incesti, violenza domestica, padri ubriachi e madri picchiate.
“La maggior parte delle persone che vengono in ospedale – racconta il professor Morino -, ha subito violenze, molto spesso all’interno del nucleo familiare”. Mentre ti lasci alle spalle i ghetti, i bambini continuano a inseguire l’auto urlando “Come stai?”. Ora la risposta c'è: male, grazie.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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