Adriatico, di Robert D. Kaplan (Marsilio, pagg. 377, euro 22, traduzione di Nausikaa Angelotti e Federica Merani), è un libro difficile da definire. Non è propriamente un reportage di viaggi né un saggio di geopolitica, tanto meno un manuale di storia o di letteratura. L'autore ne è perfettamente consapevole e non a caso definisce l'itinerario che da Ravenna e Rimini lo porta a Corfù «un lungo seminario in cui i documenti sono i libri e il paesaggio stesso». Politologo, il risvolto di copertina lo definisce, riprendendo una formula della rivista Foreign Policy, «tra i cento migliori pensatori globali», parole tanto accattivanti quanto genericamente ambigue. Kaplan è stato un convinto sostenitore dell'intervento americano in Iraq, per poi pentirsene, così come dei bombardamenti Nato sulla ex Iugoslavia, su cui non ha cambiato idea, anche se non gli sfugge il fatto che l'ingresso in Europa di ciò che un tempo erano i Balcani è stato sempre subordinato al loro far parte dell'Alleanza Atlantica, il che fa dello stesso concetto d'Europa una realtà economica, più che politica, guidata militarmente da Oltreoceano. Come gli dice un ex politico sloveno, «l'Europa non ha una sua identità emotiva» e come egli stesso si trova a constare «l'Europa non è stata a oggi capace di fornire un legame emotivo e psichico» che si poggi su «fondamenta rappresentate dalle identità», quelle che «le non élites percepiscono di pancia, senza troppe elucubrazioni né intellettualismi».
Sotto questo profilo Adriatico si rivela un po' la cartina di tornasole delle difficoltà di concetti astratti quali «strutture imperiali inclini al bene», «solido cosmopolitismo», «valori universali», «liberalismo» come ultima Thule fatichino a essere comprensibili in realtà geografiche e insieme geopolitiche come quelle che Kaplan incontra lungo il suo percorso e che più si spingono a Est, ovvero a Sud del confine adriatico, più si rivelano in ebollizione nonché fragili. L'aggiunta di qualche luogo comune, non suo, ma fatto proprio, «l'Ulisse di Omero come forse il primo rifugiato», ovvero come un profugo, come un migrante, non aiuta, se non altro perché Ulisse è uno che esce vittorioso da una guerra in casa altrui e cerca di tornare nella propria, non uno sconfitto che da casa sua cerca rifugio in casa d'altri...
«L'età del populismo - scrive Kaplan all'inizio del libro - è solo un epifenomeno, il canto del cigno dell'era del nazionalismo» e via via che si addentra nei Balcani il tema di un pericolo «della risposta populista conservatrice» si fa sempre più ricorrente proprio nel doverne constare l'appeal. Ciò che però gli sfugge è che il populismo non è la causa del prima citato «canto del cigno» del concetto di nazione, ma l'effetto, la necessità di riempire un vuoto provocato dal venir meno degli Stati nazionali da un lato, degli scompensi portati dalla globalizzazione dall'altro e da ultimo dall'incapacità delle élites e delle strutture sovranazionali a radicarsi nell'immaginario collettivo. In Croazia, con sorpresa, Kaplan si trova a constatare che «i più progressisti e reazionari non sono gli anziani, dotati di lunga memoria, ma i giovani che hanno scarsa percezione del passato», quel passato che «il benessere e la tecnologia oscurano», illudendo tutti che si viva in un eterno presente, ma che «l'ansia economica e l'incapacità dell'Unione europea di creare un vero senso di identità e appartenenza» riportano sul terreno come paura del futuro e insieme necessità di radicarsi in qualcosa. «Lo sviluppo politico ha bisogno di ideali, non solo di realismo», sottolinea uno degli interlocutori croati di Kaplan.
L'utilizzo del populismo come arma di distrazione di massa offusca lo sguardo di Kaplan persino in una nazione come la Grecia, che pure conosce di prima mano, avendovi a lungo vissuto, preso moglie, messo al mondo un figlio: «La depressione e il populismo» non sono riusciti a distruggerla, osserva, ma il populismo con la depressione non c'entra e la depressione è il risultato della folle corsa verso l'Europa, truccando i dati economici e il bilancio di Stato, che le élites politiche tradizionali, che fossero di destra o di sinistra poco importa (anche se le prime responsabili dell'inganno furono quelle socialiste) compirono e che l'Europa, nel senso di Comunità Europea, ripagò da matrigna, mettendo letteralmente in ginocchio l'intero Paese. «Il tentativo temerario di inglobare questa povera figlia del dispotismo bizantino e ottomano nelle strutture di alleanza postbellica, conferma l'universalismo a cui hanno aspirato le istituzioni occidentali» scrive Kaplan: si trattava di «decisioni puramente politiche», aggiunge, dietro cui c'era la paura che la Grecia finisse in Oriente piuttosto che in Occidente... Se di questo si è trattato, il minimo che si possa dire è che la paura è una cattiva consigliera, perché difficilmente i greci dimenticheranno come l'Europa li ha trattati e perché il porto greco del Pireo oggi parla la lingua e la volontà di potenza della Cina...
Il sottotitolo di Adriatico è Un incontro di civiltà. Detto così suona bene, a patto di accettare l'idea che prima di incontrarsi le civiltà possono anche scontrarsi, meglio, che non necessariamente lo scontro precede l'incontro: gli può anche succedere, essere il risultato e non la premessa. Civiltà, del resto, è un termine complesso: al suo interno ci sono usi, costumi, tradizioni, storie, ma anche ideologie. Il comunismo, che è una filosofia della storia nata in Occidente, ha trovato la sua applicazione pratica in Oriente e sotto questo profilo i Balcani l'hanno sperimentata per quasi tutta la seconda metà del Novecento. Il fallimento comunista è stato sotto questo aspetto una slavina che ha travolto quell'insieme di etnie e di religioni che la Iugoslavia di Tito aveva con la forza costretto a convivere. Anche qui l'Europa, intesa non come un'idea, ma come una semplice espansione economica, non ha dato il meglio di sé, ma il suo peggio. Arrivato in Albania, Kaplan scrive che «tra tutti i Paesi in via di sviluppo che ho visitato, non ce n'è uno in cui l'edilizia incontrollata e la mancanza di una pianificazione urbana abbiano raggiunto un livello simile», «una barbarie che va ben oltre l'estetica, un esempio di classicismo socialista in versione primo capitalismo americano». Per l'Europa occidentale, aggiunge, è «quello che il Messico e l'America centrale sono per gli Stati Uniti, ovvero, una fonte di contrabbando e corruzione». Non che il Montenegro lo abbia convinto di più: lì «la politica delle etnie, che ad esempio si osserva in Croazia, si è deteriorata ed è stata sostituita da vera e propria criminalità».
Partito dalla Rimini di Sigismondo Malatesta e dei Cantos di Pound, Kaplan è alla fine costretto a chiedersi che cosa l'una e gli altri abbiano a che fare «con l'attuale posizione dell'Occidente e con gli affari della Russia in Montenegro». Dopo Trieste, questa «Amburgo del Mediterraneo», trova che la definizione di Chateaubriand - «l'ultimo soffio dell'Italia viene a morire su questa spiaggia dove comincia la barbarie» - sarà pure offensiva e sbagliata, ma ha una sua ragion d'essere, come «faglia» e come confine. Curiosamente, nessuno degli illustri intervistati italiani, si chiamino Illy, Magris, Rumiz, nel ricordarne la tragedia novecentesca dedica un accenno alla foibe... Tornando a quella sua domanda, un risposta potrebbe essere nel fatto che «la soluzione per il futuro potrebbe risiedere a sorpresa nel passato, nella prima modernità di un mondo imperiale, dove regnava il cosmopolitismo». Il termine «impero», commenta però, «ha acquisito un brutto sentore, a causa dei crimini commessi dagli imperi europei moderni in Africa e altrove».
Eppure, è proprio il tempio Malatestiano «a elevare Malatesta al di sopra di tutti gli altri furfanti e combattenti suoi contemporanei» e l'opera d'arte scaturita dalle sue imprese militari rende queste ultime degne di valore. Per Pound, scrive Kaplan, «l'imperialismo e la guerra possono essere giustificati solo dall'arte.
Perché è l'epica artistica che permette alle civiltà di sopravvivere e ripartire». L'economia attrae investimenti, ma non scalda i cuori. E senza una visione si fanno politiche di corto respiro e di basso conio, destinate a sfasciarsi ogni volta che la storia si rimette a correre.
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