«Lo sanno tutti. Qui in Italia gli stranieri vengono volentieri perché possono combinare tutti i loro casini e farla franca o, comunque, rischiare poco».
È passato mezzogiorno da qualche minuto quando incontro il leader dei Trinitarios, la banda giovanile di sudamericani a cui erano in parte legati i tre arrestati per lomicidio e le aggressioni dello scorso 13 febbraio in via Padova. Appuntamento in una stazione della metropolitana, in una galleria umida e maleodorante che passa sotto una piazza. Mi precedono giovani vestiti in jeans e giubbotti di pelle che corrono ansiosi sulle scale mobili, facce serie, sussurri e fischi dintesa. Poi uno mi viene vicino: «Lo devi incontrare al bar - dice -, sali le scale mobili! Sei senza registratore, vero? Guarda che ti faccio perquisire...».
José Omar è seduto a un tavolino del bar del metrò, tiene le gambe aperte, avvolte nei jeans larghissimi e a vita bassa, le braccia stese in avanti e le mani strette luna allaltra. Capelli neri corti, fa un cenno di saluto con il capo e poi alza la mano e, agitando tre dita (simbolo di Dio, Patria e Libertà) dà il benvenuto ai suoi compagni. Quel segno indica che è il capo della banda, la pandilla dei Trinitarios. A Milano sono comparsi nel 2008, aggiungendosi al già affollato mondo delle bande sudamericane. «Non sono il rey dei Trinitarios, non sono il re di questa banda - ci tiene a sottolineare José -. Ma qui a Milano sono il capo, ho quasi ventanni e molta esperienza. Non dimenticarti il mio nome chica perché, anche se non è quello vero, lo sentirai nominare».
José resta seduto, minvita a fare altrettanto, ma i suoi tre fidi soldati restano sempre in piedi dietro di noi e a un suo battito di ciglia si abbassano con lorecchio accanto alla bocca del loro capo per carpirne i desideri ed eseguirne immediatamente gli ordini.
«Di noi si dicono tante cose, ma con i fatti di via Padova non centriamo niente. Noi non siamo assassini, hai capito? Dillo ai tuoi amici del giornale che fanno quei titoloni. Quei ragazzi arrestati per il morto egiziano, noi non li conosciamo. Però non siamo tranquilli. Presto potrebbe succedere qualcosa di brutto qui a Milano».
Cerchiamo di chiedergli il perché, ma il ragazzo non parla. Si tormenta un tatuaggio a forma di corona su un braccio e fissa il ripiano del tavolo, i suoi amici guardano altrove. «Non vogliamo essere considerati come i nordafricani - il capo riprende allimprovviso il discorso -. Pensa al morto di via Padova, legiziano. Bravo, carino, un pizzaiolo con la passione della musica. Ma vuoi che te lo dica? Era uno spacciatore, vendeva droga, morte. Noi non siamo santi, ma tra noi non ci sono spacciatori. E andiamo a scuola. Ma nelle vostre scuole, come nelle vostre fabbriche non ci vogliono. Dicono che beviamo troppo, che siamo sempre ubriachi...E voi? Siete perfetti voi? - e José fa una smorfia -. Date il permesso di soggiorno ai banditi, ai balordi. Che restano tutti qui e, anche quando vengono fermati più volte, sanno di potersene andare in giro a rubare e a uccidere. Sanno che più di tanto non rischiano qui in Italia».
E in effetti, secondo i dati ufficiali nel 2009 tra Milano e provincia ci sono state oltre 5mila intimazioni a stranieri clandestini affinché lasciassero il territorio, ma solo 585 sono stati effettivamente espulsi, mandati via: praticamente appena un decimo.
«Adesso la polizia cerca altri due di noi, due Latin King per via Padova - conclude José prima di andarsene, dopo essersi alzato e aver posato la birra sul tavolo, mentre i suoi scagnozzi lo precedono solerti per proteggere il suo cammino -. Spero non sia troppo tardi quando li troveranno. Abbiamo tutti bisogno di pace, ma... fateci vivere Italia. Noi qui ci sentiamo solo dei sopravvissuti in un ghetto».
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