L’equilibrismo cinese

Ciò che più mi ha impressionato nella visita della Città Proibita sono stati i gabinetti. Forse questo era dovuto alla mia vecchia deformazione mentale militare; forse alla noia causata dalla ripetitività di una oppressiva opulenza imperiale, espressa in ammirabili sculture, giardini segreti, manufatti preziosi; forse le tracce lasciate da una corte formalista, isolata dal popolo, impegnata nella custodia di un potere legittimato dalla persona dell’imperatore e dal suo monopolio del contatto con il divino; forse era a causa dei miei piedi doloranti e delle mie orecchie incapaci di assorbire nuove porzioni di storia della mia informatissima guida.
Ma non era solo questo. Il mio stupore di fronte ai gabinetti era provocato dal fatto che in un luogo frequentato da migliaia di persone di ogni sesso ed età (molti con cartoncini di cibo in mano) non si vedesse un pezzo di carta o una goccia d’acqua sul pavimento; che nel bagno - uno dei tanti sparpagliati sull’immensa area della Città Proibita - tutti gli aggeggi funzionassero: sapone liquido, contenitori di carta sempre rinnovati, asciugatori elettrici in servizio. Il pavimento, lucidato continuamente si estendeva a una specie di salottino dove anziani come me con i piedi doloranti potevano riposare su comode poltroncine di vimini.
Un’amministrazione che riesce a ottenere un tale livello di pulizia e di disciplina civica (anche per l’ossessione delle epidemie, che si cerca di prevenire, sia per tradizione di medicina locale, sia per la povertà dei sistemi sanitari) mi è sembrata un’amministrazione che può fare tutto. Specie quando invita la nazione a «pensare in grande».
Che cosa significa questo appello, che è stato accompagnato dall’annuncio dell’aumento del 17 per cento delle spese militari? Conquistare Taiwan? Portare il Pil di 2.054 dollari e nove automobili ogni 1.000 persone al livello americano di 43.950 dollari e 146 automobili ogni 1.000 abitanti? Mettere in ginocchio gli avversari politici, in primo luogo il Giappone e gli Stati Uniti? Lanciarsi alla conquista economica del mondo?
Chiedere una risposta agli esperti locali è come fare un’abbuffata di contrastanti analisi del futuro della Cina, analisi molto spesso animate da senso di invidia, disprezzo, pregiudizi e molta paura.
Uno studioso cinese di letteratura italiana una risposta me l’ha data con un apologo «marxista» che mi sembra valga anche per gli altri Paesi.
Due contadini cinesi coltivano carote. Uno le fa crescere meglio, si arricchisce e si compra l’automobile. L’altro, invidioso, obbliga tutta la famiglia a lavorare, lo supera e riesce a comperarsi un’automobile ancora più grande. Due contadini russi coltivano carote. Uno si arricchisce e si compra l’automobile. L’altro mobilita la famiglia dicendo ai famigliari che non è giusto che il vicino sia diverso da loro. E di notte porta i familiari a bruciargli l’automobile.
Marco Croci, specializzato in comunicazione, per spiegarmi la Cina fa invece parlare per me le sculture di giada, i fiori nei giardini, le statue nei templi. Insiste, contro il parere della guida cinese, a farmene visitare uno che nonostante la sua mole sembra scomparire nel turbine del traffico che lo avvolge anche dall’alto, dalle superstrade soprelevate. È un tempio strano, con una successione di cortili difesi da alte mura. Nel primo, accanto a un grande bacino di bronzo da cui escono fumi di incenso, si eleva imponente un grande cavallo di pietra così levigata da sembrare porcellana. Dal collo gli pendono nastri rossi con attaccate alcune piastrine personalizzate da nomi scritti spesso anche in caratteri latini, che a me sono sembrati - ma non erano - degli ex-voto.
Questo primo grande cortile era di tradizione taoista, e ricordava ai fedeli come l’essenza del mondo non sia altro che vacuità. La realtà si manifesta in forme reali, ma è costituita anche quando appare immobile come la roccia, dall’eterno gioco degli opposti, dello ying e dello yang, dal maschile e dal femminile sempre interdipendenti fra di loro (penso al paradosso dell’economia degli Stati Uniti dipendente dall’acquisto cinese dei suoi buoni del tesoro, e dell’economia della Cina dipendente in gran parte dalla capacità americana di assorbire i suoi prodotti).
Come questo gioco degli opposti venga amministrato - in cielo e in terra - lo spiega il secondo grande cortile del tempio, molto meno simbolicamente filosofico del primo. Qui c’è tutta la praticità e la genialità burocratica cinese che viene simbolicamente esaltata in culto religioso. Tutto intorno al muro di cinta si innalzano 76 costruzioni che a me sembrano cappelle e che portano in cinese e in inglese l’indicazione (sic!) di «Dipartimenti».
In ciascuna c’è la statua del capo dipartimento, con ai lati statue che simbolizzano la realizzazione, tanto in questa vita quanto nelle future del comportamento degli esseri umani. I quali esprimono da vivi le loro preghiere, speranze, ambizioni appendendo sul cancelletto di legno davanti ad ogni «cappella» il solito nastro rosso personalizzato da una piastrina di legno firmata.
C’è così il dipartimento per «il premio immediato»; per la crescita di figli bravi; per coloro che sono o temono di diventare tossicodipendenti. C’è il dipartimento per «evitare la tortura», per avere buona salute, per diventare monaco (vuoto di strisce), e il dipartimento - per? contro? in favore? - della «corruzione pubblica» (pieno di striscioni).
C’è il dipartimento dei 15 modi di essere ammazzati, ma non si capisce bene se si tratta del desiderio di evitarli oppure di quello di farne vittime i propri nemici.
C’è dunque un’amministrazione che funziona (e bene, a giudicare dal numero degli striscioni) fra cielo e terra, una burocrazia che - come un pattinatore sulle onde del mare - da sempre si è specializzata nel destreggiarsi fra i bisogni del mondo di quaggiù e quello di lassù. Un potere che conosce l’arte dell’equilibrio fra il «pieno» del vuoto e il «vuoto» del pieno; fra lo ying e lo yang; che trasferisce in politica l’abilità sovrumana dei giocolieri e dei trapezisti che incantano il pubblico occidentale e locale con le loro evoluzioni nei tre teatri-circo della capitale.
Il regime comunista è perfettamente conscio del bisogno di mantenere questo equilibrio aggiustandolo con i suoi piani quinquennali, le sue formule contraddittorie di pianificazione e di ideologia strumentalizzate alle esigenze dello sviluppo imposto dalla globalizzazione.


Sinora ci è riuscito senza esercitare una troppo visibile violenza e cercando di controllare, placandola, l’energia centrifuga da lui stesso creata, e che con le sue spinte di modernità rischia di sfuggirgli di mano.
(2. continua)

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