Il nemico del mio amico è mio amico, dice un vecchio adagio che risuona in questi giorni con una certa ripetitività nei media e negli ambienti che hanno fatto della pace fra Israele e gli arabi una missione o una ossessione. A rinfocolare le speranze di un avvicinamento fra le posizioni dello Stato ebraico e quelle dei suoi nemici non c’è stato forse un progresso nel negoziato per lo scambio di morti e prigionieri con gli Hezbollah libanesi? Non è stata raggiunta, grazie alla mediazione egiziana, una tregua d’armi tra Israele e Hamas, anche se le bande locali a Gaza non la rispettano, lanciando razzi contro un Israele che «per qualche ragione» non risponde? Non ci sono dichiarazioni di intenzione di pace fra Gerusalemme e Damasco, tramite i buoni uffici della Turchia? L’Arabia Saudita non è favorevole a un incontro interreligioso a cui per la prima volta sono stati invitati rabbini israeliani?
Questi segni di pace che sembrano moltiplicarsi appaiono rinvigoriti dalla convocazione a Parigi della Conferenza Euromediterranea per il rilancio del partenariato euromediterraneo fallito con la conferenza di Barcellona di quindici anni fa. Questa iniziativa francese comporta tre fatti nuovi che potrebbero incidere sullo sviluppo del processo di pace in Medio Oriente. Per la prima volta dalla fallita conferenza di pace di Madrid nel 1991 Israele e i Paesi Arabi siedono allo stesso tavolo. A questa riunione partecipano poi tutti i Paesi arabi che, dalla Turchia al Marocco, rappresentano uno schieramento islamico sunnita timoroso delle ambizioni dell’Iran sciita rivoluzionario e potenzialmente nucleare. Infine, assente dalla conferenza - non solo per questioni geografiche - c’è un’amministrazione americana azzoppata che ha i mezzi ma non la volontà di aprire un nuovo fronte contro l’Iran.
L’unico Paese che ha i mezzi e l’interesse ad agire contro il regime di Teheran è Israele, minacciato quotidianamente di eliminazione dal presidente iraniano. Ma, a parte il fatto che Israele si rende conto che un’operazione del genere anche se coronata tatticamente da successo non farebbe che rinforzare il regime degli ayatollah senza eliminare definitivamente il pericolo nucleare, è difficile credere che il governo di Gerusalemme possa impegnarsi in un’avventura così pericolosa da solo. Per agire ha bisogno per lo meno del consenso degli Stati arabi per attraversare il loro spazio aereo e raggiungere i bersagli che mira a distruggere. Il prezzo che può domandare per ottenere questo accesso è la garanzia di non essere poi pugnalato politicamente alla schiena, ma può essere il prezzo della pace? Difficile crederlo.
Alla testa di Israele non c’è un Cavour, la conferenza euromediterranea di Parigi non è quella per la Crimea; Sarkozy non è Napoleone III e la società internazionale attuale non è più dominata dal «concerto europeo». Credere che la pace nel Medio Oriente possa nascere da un’altra guerra è forse la speranze di illusi, irresponsabili o dei due messi assieme.
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