L’INTERVISTA ALBERTO MINGARDI

Non è stato facile, in questi anni, fare i conti con Eraclito. Tutto scorre. Il lavoro che va e viene, flessibile, precario, rischioso, avventuroso, frenetico, ogni giorno una scelta, ogni volta una scommessa. Niente più Stato che ti coccola dalla culla alla tomba. Niente certezze. Mobilità. C’è un’intera generazione che ha fatto i conti con questa storia. Si sono adeguati. Si sono convinti che si può convivere con l’incertezza. Qualcuno ha avuto paura, qualcun’altro ha pensato che questa vita in bilico è meno noiosa di quella dei padri. Quasi tutti si sono rassegnati. Questi sono i tempi. Giulio Tremonti, con cinque parole, ha ribaltato il mondo. Ragazzi, scusate, era tutto uno scherzo: il posto fisso è un valore.
Il ministro ha cambiato le carte sul tavolo, con un colpo di mano in salsa colbertiana. Alberto Mingardi ha meno di trent’anni. È lui che ha fondato l’istituto Bruno Leoni, una roccaforte del pensiero liberista. Lo conosci da quando non era ancora maggiorenne. È polemico e non ha mai rinnegato il mercato. Fa l'imprenditore di se stesso: non ha un posto fisso. Non lo ha mai voluto. Non lo ha mai cercato. Firma editoriali per il Wall Street Journal e per una manciata di altri quotidiani internazionali. Qualche volta ha preso il tè con Margaret Thatcher. Mingardi è un atipico. Magari è un eccezione, ma una cosa è certa: la sua scala di valori non coincide con quella di Tremonti. È una questione di età e non solo.
Il posto fisso è un valore?
«No, per niente. È un disvalore».
Esagerato.
«Il governo, soprattutto il ministro Sacconi, ha insistito più volte sul fatto che i giovani italiani devono cominciare a lavorare presto. È un invito a fare esperienza. Nessuno, però, pensa di mantenere quel lavoretto per tutta la vita. Questo è il punto. La cultura del posto è diversa dalla cultura del lavoro».
La differenza?
«La cultura del lavoro è ricerca, passione, intrapresa, coraggio, orgoglio. È apertura, confronto col mondo. Il posto fisso è qualcosa che ti arriva dall'alto, quasi un residuo feudale. È lo Stato che distribuisce ai sudditi i suoi favori. È un sistema rigido che ti segue in ogni istante della tua vita».
Dalla culla alla bara.
«Appunto».
Il vantaggio è che ti regala una vita stabile.
«Una volta era così, ora è solo un’illusione. Il posto fisso era uno dei termini di un’equazione che teneva in piedi un mondo fondato sulla stabilità: casa, famiglia, lavoro, territorio. Era il mondo senza divorzio, solido, dove bene o male non lasciavi mai il tuo paese, non viaggiavi, andavi a Roma o Venezia solo in viaggio di nozze. C’era meno incertezza, ma anche meno crescita, meno ricchezza: e non solo sul piano economico, ma soprattutto su quello culturale. Il paradosso è questo: quell’equazione è saltata e l'unico pezzo che è rimasto in piedi, in Italia, è proprio il posto fisso».
E da solo non può sostenere il peso di una società precaria.
«No. Anche se capisco le ragioni di Tremonti. È il tentativo di un uomo politico intelligente di inventarsi un conservatorismo declinato all'italiana. Il ministro dice che noi siamo “posto fisso, Inps e famiglia”. Il problema è che proprio questi due elementi sono ormai in conflitto. È lo Stato sociale che ha scardinato tutti i corpi intermedi. Li assorbe. Li sostituisce. Li divora. La crisi della famiglia è figlia del Welfare State. È il welfare che ha affidato il monopolio dell’educazione alla scuola, strappandola alla famiglia. L’assicurazione pubblica contro la vecchiaia ruppe il legame intergenerazionale. E permise, di fatto, l’emancipazione dei figli dai padri. Forse Tremonti pensa che dalla crisi risorgerà come una fenice il vecchio Stato sociale d’impronta bismarckiana. Ma quello Stato non era amico della famiglia, dei corpi intermedi, dei “valori” tradizionalmente associati all’una e agli altri. Sta qui il cortocircuito».
L'alternativa è l'America. E questo fa paura. È il terrore di vivere senza paracadute?
«Eppure chi la conosce sa che la società americana è assieme più libera e più tradizionalista, più salda nei suoi ancoraggi. Magari ogni tanto sembra più bigotta. Sicuramente è più religiosa. Ha radici più forti. Solo che lì a nessuno verrebbe in mente di rinunciare a un lavoro solo perché da Houston deve trasferirsi in California».
Il lavoro come ricerca?
«Sì. Il posto fisso invece ci impoverisce. Nella testa, nel modo di guardare il mondo. L’effetto è che il lavoro debba venire a noi. È la logica dell'attesa. Tu stai lì e aspetti, lamentandoti. È quello che purtroppo capita al Sud».
Non è facile spostarsi se guadagni poco.


«Per carità, ma allora guardiamo al mercato del lavoro nel suo complesso. È verosimile fare l’elogio dei rapporti a tempo indeterminato, finché c’è ancora l’articolo 18, che terrorizza l’imprenditore che vuole assumere?».

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