L’INTERVISTA PAOLO LIGUORI

Il 19 novembre 1988, la prima delle cinque puntate dell’inchiesta sulla ricostruzione irpina viene pubblicata sulle pagine del Giornale diretto da Indro Montanelli. Dopo poco più di vent’anni, Paolo Liguori racconta come iniziò quello che sarebbe stato poi ribattezzato «Irpiniagate» e ricorda le tante ricadute sulla politica del tempo, tracciando uno spaccato dei rapporti tra giornali, poteri forti e partiti nella Prima Repubblica.
Di chi è l’idea di un’inchiesta sull’Irpinia?
«Di Indro Montanelli. Nell’autunno del 1988, il direttore del Giornale scrive un editoriale su Ciriaco De Mita, che in quel periodo accumulava un potere notevole: segretario della Dc e Presidente del Consiglio. L’articolo di fondo è un attacco al calor bianco: il politico di Nusco viene definito il Padrino. Montanelli lo scrive per tre ragioni: diffida di De Mita, con cui peraltro non aveva mai avuto buoni rapporti; è totalmente estraneo alla cultura della sinistra democristiana, e infatti i suoi punti di riferimento nello scudocrociato sono avversari del segretario; infine, vuole contrapporsi a Repubblica, che in quei mesi tira la volata al premier».
Cosa accade dopo la pubblicazione dell’editoriale?
«De Mita querela Montanelli, che in seguito sarà condannato. Quando il direttore del Giornale viene a conoscenza della denuncia, chiede ai suoi vicedirettori di mandare qualcuno sul posto per indagare su come erano stati usati i fondi destinati alla ricostruzione. Serve quindi un’inchiesta che dimostri la validità delle accuse – se non giudiziarie, quantomeno politiche – scritte in quell’articolo di fondo. Il vicedirettore Guido Paglia, che vive a Roma, gli fa il mio nome».
A ottobre dunque, la partenza per la Campania...
«Appena arrivato in Irpinia, devo affrontare il primo problema: non ho nessun dato. Sono all’oscuro di quanti fondi siano stati spesi e in che modo. So di iniziative molto propagandate. Sui loro esiti, invece, nulla».
Quali sono le sue fonti?
«All’inizio, cerco di parlare con amici e nemici del gruppo vicino a De Mita. Dapprima incontro i democristiani, i veri padroni della regione. Il risultato è però frustrante: i demitiani non parlano; i nemici del segretario, invece, ne hanno una paura mortale. Preferiscono così tacere per evitare di turbare i fragilissimi equilibri locali. Incontro Paolo Cirino Pomicino, che però non mi dice nulla. Gerardo Bianco mi fornisce invece un quadro politico piuttosto chiaro sulle divisioni della Balena bianca. Ottengo qualcosa di più da Gianfranco Rotondi, astro emergente dei giovani democristiani, e da Giuseppe De Mita, nipote del Presidente del Consiglio. In quel periodo sono entrambi ai margini della politica regionale. Il primo ostracizzato dal suo stesso partito; ancora più bruciante l’“esilio” del secondo: ha osato contrapporsi a uno dei candidati demitiani della zona, subendo una durissima reprimenda pubblica, in cui lo zio gli ha chiesto di sconfessare le sue azioni in nome della famiglia. Nella Campania degli anni Ottanta, tutti i gruppi di potere sono legati da un rapporto di filiazione diretta o da uno di parentela politica».
L’inizio dell’inchiesta non è dei più incoraggianti...
«È vero. Eppure, nonostante le bocche cucite, ho una doppia fortuna. La prima è la disponibilità al dialogo dei comunisti. In quel periodo, nel Pci campano c’è uno scontro feroce: la federazione è governata dall’ala di destra del partito che a Roma fa capo a Giorgio Napolitano, mentre all’opposizione c’è Antonio Bassolino, antagonista fermo dei miglioristi locali. La mia esigenza di sapere coincide con la sua necessità di dimostrare che il Pci sbaglia a fare un’opposizione morbida. Per questo, Bassolino spinge i suoi luogotenenti a darmi tutto l’aiuto possibile. Ho così accesso a molti dati, grazie a uomini che conoscono benissimo il territorio».
E la seconda fortuna?
«Quella di entrare in contatto – attraverso un collega dell’Espresso che fa di nome Locatelli e che in seguito avrebbe scritto un libro sulla vicenda – con un ragioniere, consulente di quel gruppo di potere campano, che è uno dei responsabili della Banca Popolare dell’Irpinia. Quando lo incontro, mi squaderna un elenco sterminato di tabulati e fatture: un diagramma inoppugnabile dei legami tra potentati economici e partiti».
Quanto dura l’indagine?
«Sette giorni. Considerata l’abbondanza del materiale, a Roma viene deciso di dividere l’inchiesta in cinque articoli, alternando la pubblicazione con i commenti del giorno dopo raccolti in Parlamento. Quando però torno al Giornale, Montanelli è nel pieno di una di quelle sue crisi depressive che lo allontanavano dal lavoro. In sua assenza, concordiamo comunque l’uscita della prima puntata, che però finisce seminascosta in una pagina economica. Vista l’importanza dei temi affrontati, in direzione si decide comunque di informare il direttore e, da quel momento, l’inchiesta conquista visibilità, ma solo sul nostro quotidiano. A Montecitorio, infatti, la Democrazia cristiana si trincera dietro un inaccessibile silenzio».
E gli altri giornali? Nessuno riprende la notizia?
«In quel periodo, la stragrande maggioranza delle redazioni ha un giornalista titolare dei rapporti con la segreteria della Dc. Nessuna testata nazionale ne è priva, tranne il nostro quotidiano. Noi del Giornale chiamavamo quella congrega “la banda del cappuccino”, perché ogni giorno, all’una e mezzo, i suoi partecipanti si recavano a piazza del Gesù, sede della Dc, per un incontro con De Mita organizzato da Clemente Mastella, al tempo responsabile dell’ufficio stampa. Quel summit informale garantiva per il giorno dopo una dozzina di articoli sul Presidente del Consiglio, quasi sempre agiografici. Era molto difficile che nelle pagine dei quotidiani dedicate alla politica si parlasse di qualcosa dell’universo democristiano che non venisse fuori da quegli incontri».
Come esplode allora l’Irpiniagate?
«Pubblicata l’inchiesta, il parlamentare radicale Peppino Calderisi fa un’interrogazione, citando i dati del Giornale e chiedendo spiegazioni al governo. A quel punto arriva in soccorso un’altra fortunosa coincidenza politica: il Pci si sta in quelle settimane avvicinando alla posizione bassoliniana di netto contrasto alla Dc. D’Alema, allora direttore dell’Unità, incarica così un suo redattore, Federico Geremicca, di scrivere un articolo sull’interrogazione di Calderisi. Un pezzo breve, perché confezionato a ora tarda, ma comunque inserito nel piede della prima, e soprattutto dal titolo esplosivo: De Mita si è arricchito con i fondi del terremoto?».
E quali sono le reazioni?
«Finalmente il caso monta: il gruppo dirigente democristiano si ribella, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Angelo Sanza – convinto che dietro l’inchiesta ci siano i servizi segreti – è costretto a dimettersi, mentre il Pci inizia una durissima opposizione. Poco prima di Natale viene istituita una commissione parlamentare presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, che si conclude poi con l’assoluzione politica di De Mita, ma anche con la constatazione delle moltissime speculazioni finanziarie nate attorno alla ricostruzione. Passa qualche mese, e il leader irpino perde la segreteria del partito. Tempo dopo, nel 1992, quando sono nominato direttore del Giorno, De Mita mi chiede da chi fosse stata ispirata quell’inchiesta. È ancora convinto della manina dei servizi, influenzati da certi democristiani ostili alla sua leadership. Gli dico la verità: l’idea è solo di Montanelli. Una risposta alla querela seguita dopo l’uscita del famigerato editoriale».
Una situazione del genere oggi si potrebbe ripetere?
«No, per una ragione evidente quanto elementare: negli ultimi vent’anni, le televisioni hanno cambiato il modo di vedere e di percepire la realtà. Con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, la comunicazione ha stravolto e conquistato la politica. Tutti gli eventi sono ormai dentro una sorta d’interattività. Il terremoto in Abruzzo ne è un esempio sin troppo chiaro: i media sono arrivati prima dello Stato, o comunque contemporaneamente.

L’inviato del Tg1 o del Tg5 è ormai percepito dal cittadino alla stregua di una pubblica autorità, pari ad esempio a un viceministro: la sua forza è riassunta in quella sua telecamera, in grado di colmare ogni sorta di distanza. Con l’avvento dei nuovi media, uno scenario simile a quello irpino è ormai irripetibile».

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