L’ira dei moderati arabi: Barack tenero con gli estremisti

Il Rais egiziano Mubarak non ha neppure accompagnato il presidente americano all'aeroporto

Ci vorrà tempo per sapere se le 5804 parole che Obama ha pronunciato alla Università del Cairo cambieranno i rapporti dell'America con il mondo musulmano. Ma poiché il fulcro della crisi internazionale oggi non si trova nè al Cairo nè a Gerusalemme ma a Pyongyang, occorre ricordare ciò che dice Kissinger: «La Corea del nord ha lasciato agli Usa due opzioni: accettare le sue bombe o agire davvero duramente». Perché è su come Obama si misurerà con Pyongyang che l'Iran trarrà le conseguenze del discorso del presidente Usa sulle sue ambizioni nucleari. Si vedrà allora se «lo tsunami oratorio» di Obama oltre a mettere fine alla teoria di Huntington sullo scontro di civiltà cambierà qualcosa sul terreno. Nel frattempo guardando con occhi medio-orientali alle parole di Obama, si possono fare alcune osservazioni.
1. Il discorso appare il prodotto dalla migliore competenza accademica islamica americana. In esso si percepisce la mano degli arabisti di Princeton e degli ebrei liberali di sinistra vicini al presidente, poco simpatizzanti del governo di Netanyahu oltre al desiderio di Obama di staccarsi nettamente dalle idee di Bush.
2. Il conflitto palestinese. Il fatto di essere elencato al secondo posto dei principali problemi che l'America deve affrontare la dice lunga su cosa pensano Obama e l'onnipotente capo di stato maggiore israelo-americano Rahm Emanuel. La denuncia dell'antisemitismo, della negazione dell'Olocausto, la difesa dell'alleanza con lo Stato degli ebrei, la menzione del piano di pace saudita come inizio non fine del negoziato sono pietre miliari a favore di Israele. Gerusalemme non può sottovalutarle soprattutto perché sono state lanciate al Cairo. Ci sono però silenzi - il ritorno dei rifugiati - e paragoni che Israele non può accettare. Per esempio l'equivalenza implicita fra Shoah e iniquità dell'occupazione; il paragone fra la lotta per l'uguaglianza dei diritti dei negri americani che non volevano distruggere l'America e quella dei palestinesi che vogliono diritti per distruggere Israele.
3. L'America di Obama è troppo debole per affrontare l'Iran, oggi nemico dei paesi arabi alleati dell'America non meno di Israele. Ha bisogno della Russia e della Cina che per motivi diversi non desiderano aiutarla a tornare superpotenza. Se Washington non riuscirà ad imporre sanzioni capaci di arrestare la corsa di Teheran al nucleare, la strada per una azione autonoma di Israele resterà aperta. Essa spariglierà le carte della diplomazia Usa nel mondo islamico o obbligherà Washington a pagare un prezzo considerevole per impedire a Israele di agire da solo.
4. Davanti a chi ha parlato Obama? Davanti a 3000 giovani entusiasti ma senza potere. Non ha parlato davanti alle folle che il potere non hanno e che l'inglese non lo capiscono. Ha parlato ai circoli che il potere detengono, che non sono disposti a lasciare ad una opposizione che potrebbe cadere nelle mani degli estremisti. I leader hanno dimostrato il loro imbarazzo attraverso l'astenersi di Mubarak (che del testo del discorso aveva avuto comunicazione) dal ricevere e accompagnare Obama all'aeroporto, seccato per aver dovuto acconsentire alla domanda dell'ambasciatrice americana di ammettere i rappresentanti del Fratelli Musulmani all'università. Non è piaciuto a molti arabi la ripetuta espressione usata da Osama: «dovete», tradotta in arabo col verbo jagib. È questa «l'umiltà» con cui tu vieni a parlarci? Si chiedevano molti nelle redazioni dei giornali. E i militari, la cui preoccupazione non è Israele ma l'espansionismo politico e religioso dell'Iran shiita, si chiedono di quale forza reale e di quale volontà di affrontare il nemico dispone ancora l'alleato americano. Quanto ai radicali islamici la risposta, netta, sprezzante, senza ombra di compromesso, l'ha data nel suo video il capo di al Qaida.
5. Infine è improbabile che il discorso del Cairo faccia effetto su Netanyahu. Su una cosa è certo d'accordo: per risolvere i conflitti ci vuole pazienza.

Una pazienza che verrà messa alla prova per l'America dai risultati delle elezioni in Libano di domenica, da quelle dell'Iran ma soprattutto dalla Corea del nord. Non certo dagli insediamenti in Cisgiordania di Israele.

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