L’Islam moderno deve trovare il suo Solženicyn

Ne «La solitudine dell’Occidente» di Khaled Fuad Allam i problemi e le speranze create dall’incontro di civiltà

Il libro che Khaled Fuad Allam ha pubblicato da Rizzoli, La solitudine dell’Occidente (pagg. 224, euro 17) è un testo straordinario con un titolo sbagliato, perché è soprattutto della solitudine dell’Islam che tratta in 19 capitoletti rivelatori delle tre «anime» dell’autore.
Algerino di nascita, universitario e parlamentare italiano, basterebbe la sua introduzione alla splendida traduzione del Corano di Gabriele Mandel (UTET, 2004) per consacrarlo come uno dei migliori analisti dell’Islam contemporaneo. Occorre tuttavia coraggio e onestà, non solo cultura e intelligenza, per far coesistere l’anima del sociologo con quella del memorialista autobiografico e del poeta senza cadere nel banale e nel settario. Per scrivere che l’Islam non ha inventato nulla se non l’appello a «non temere di uscire da un pensiero che va oltre la terra»; per chiedergli di uscire dalla sua solitudine attraverso la citazione di un testo vecchio di mille anni in cui già si denunciava le disputa fra «chi crede di essere il vero Islam e chi (lo) contesta». Per Allam l’Islam moderno ha bisogno di trovare un suo Solženicyn ma anche «uno sguardo di amore» che l’Occidente non gli sa dare se vuole uscire da 300 anni di senso di inferiorità.
Col distacco del sociologo, l’autore analizza una cultura in cui il linguaggio «ignora l’80% dei suoi testi»; in cui l’ideologismo svuota l’identità culturale e dove «non sono gli islamisti ad appropriarsi dello Stato ma lo Stato che si appropria di loro invadendo ogni momento del quotidiano».
Allam mette il dito su molti problemi brucianti nel rapporto fra Islam e Occidente: il non riconoscimento, ad esempio, del fatto che «l’immigrazione costituisce il limes antropologico per lo stato-nazione e le sue auto rappresentazioni» creando un concetto nuovo di «sicurezza culturale». Oppure quanto sia difficile per l’immigrante musulmano sradicato dalla religiosità del Paese d’origine - dove religione era sinonimo di codice e divieti - adattarsi ai cambiamenti imposti dallo stato di una minoranza «intrappolata fra il discorso neofondamentalista e un Islam radicale che vede nell’Islam solo strutture politiche».
Allam rivive in chiave personale i problemi, le speranze e i dolori creati dallo scontro fra Islam e Occidente nei capitoli in cui descrive con malinconia poetica la sua infanzia in Algeria a cavallo tra la fine della colonizzazione e l’inizio dell’indipendenza; o la sua partenza da Trieste; o il suo passaggio a Gerusalemme (dove presenta un suo libro tradotto in ebraico); o il suo viaggio in Iran. Non si nasconde i rischi che le sue idee comportano. Ne accenna nei due ultimi capitoli, quello che riproduce la lettera di Padre Christian, il priore del convento di Tibhirin, in Algeria, scritta qualche giorno prima di essere trucidato coi suoi confratelli dagli islamisti; e quello in cui riproduce la lettera scritta alla figlia Dunya, di 12 anni, per cercar di spiegarle come affrontare «il dramma ancora silenzioso di una umanità che non sa più vedere se stessa».


Non sapendo come insegnarle a non avere paura, la invita ad affrontare «l’inerzia del mondo», le chiede di guardare la «rosa dei sette colori» da lui portata da Shiratz. «In quella rosa è il nostro essere al mondo, non il nostro essere nel mondo». Vi consiglio di leggere questo libro. Dopo non sarete più come prima.

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