L’Islam non è una religione per donne. Parola di islamica

L’Islam non è una religione per donne. E difficilmente lo diventerà. In compenso l’Islam è una religione in enorme espansione, non fosse altro che i suoi adepti emigrano, in cerca di lavoro e fortuna, in tutto l’Occidente. Creando comunità che hanno un alto tasso di crescita demografica, e pochissima tendenza a integrarsi con la nostra cultura. Insomma una situazione esplosiva che rischia di mettere una bella ipoteca sui diritti umani e sulla parità dei sessi. Le tesi di un qualche movimento politico conservatore poco incline alla globalizzazione e al multiculturalismo?
No, le riflessioni di Ayaan Hirsi Ali, una donna che ha trascorso immersa nella cultura islamica i primi ventuno anni della propria vita e che per sfuggire a quella cultura ha dovuto scegliere la fuga e l’esilio. Le tesi di una donna che per aver rifiutato un matrimonio combinato, aver abiurato la sua religione e per aver collaborato alla sceneggiatura del film Submission - quello costato la vita al regista olandese Theo van Gogh - ha dovuto passare anni sotto scorta. Leggendo il suo nuovo saggio Nomade (Rizzoli, pagg. 340, euro 18,50) ci si inoltra, infatti, lungo i percorsi tortuosi e dolorosi che fanno della religione di Maometto una macchina perfetta per soffocare qualsiasi iniziativa o anelito vitale che venga dall’«altra metà del cielo». Se nei suoi libri precedenti, come Infedele, Ayaan Hirsi Ali aveva raccontato le sue vicende personali, il suo percorso verso l’ateismo e l’abbandono della umma musulmana, in Nomade lo sguardo della scrittrice si allarga subito sugli effetti sociali della religione.
Anzi, il punto di partenza è proprio il fatto che Ayaan ha buttato alle spalle la sua rabbia, riuscendo in qualche modo anche a ristabilire dei rapporti con quel padre (poco prima che morisse) che le aveva imposto un matrimonio combinato. Ma anche la riscoperta degli affetti non può affievolire la constatazione che nel mondo islamico per la donna non esistono diritti. E questo ormai non avviene solo in paesi lontani. Le lapidazioni, le violenze, le umiliazioni si sono spostate nelle città dell’Europa e persino degli Stati Uniti. Avvengono «alla porta accanto».
Come è stato possibile? Secondo l’autrice grazie anche a un «razzismo delle basse aspettative»: «Questo atteggiamento si basa sull’idea che le persone di colore devono essere esentate dai “normali” standard di comportamento. Alcuni benintenzionati ritengono che le minoranze non dovrebbero condividere tutti gli obblighi al cui rispetto sono tenuti i più». Insomma è il buonismo multiculturale che fa sì che il rispetto di quei diritti che per l’Occidente sono universali non penetri nei «ghetti». Ghetti in cui spesso sono gli stessi musulmani a chiudersi (per continuare a vivere a modo loro).
Mentre per quanto la riguarda, Ayaan Hirsi Ali dubbi non ne ha: l’Occidente laico l’ha salvata e ora deve battersi per salvare milioni di altre donne. Ma per farlo deve avere fiducia nei suoi valori. Deve combattere l’integralismo e in primo luogo farlo «nel giardino di casa». Gli strumenti sono la scuola e l’istruzione, una buona dose di coraggio, la ragione e il coraggio di dire che chi non rispetta la libertà non può vivere in paesi liberi. Il resto, parola dell’autrice, è solo: «una forma crudele di razzismo, ancor più crudele perché espresso con dolci parole di virtù». Tanto più che anche la discussione sull’esistenza o meno di una lettura «moderata» della religione del Corano è secondo questa eterna esule una questione poco più che accademica. Esistono letture diverse delle Scritture cristiane.

Tra i cristiani esistono i moderati e gli oltranzisti (Ayaan vorrebbe che i moderati si ponessero come un costante modello per gli immigrati islamici che non sono in grado di capire il laicismo). Nell’Islam esiste solo «l’incantesimo del Profeta infallibile».

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