Il primo bimbo contagiato dallinfluenza suina si chiama Enrique Hernandez e oggi gioca a calcio, si arrampica sugli alberi. Un monello vispo e sorridente che davanti ai giornalisti giura: «Mi sento bene». Difficile non credergli. A Ginevra lOrganizzazione mondiale della Sanità continua a giocare con i livelli dallarme. Era tre, poi è diventato quattro, ieri ha toccato il cinque su una scala di sei. Ma leggendo attentamente i suoi ansiogeni comunicati si scoprono dati tuttaltro che preoccupanti. I morti accertati per il virus dei porci sono sette. Anzi, otto, calcolando linfante messicano morto ieri in una clinica del Texas. Otto? Ma non erano 159 solo in Messico? E i casi sospetti non erano duemilacinquecento?
Qualcosa non torna. Il dubbio che la vicenda sia stata ingigantita ad arte è sempre più forte, sempre più concreto. Anche perché le analogie con linfluenza aviaria sono evidenti, innanzitutto considerando come è sorto il contagio. Il focolaio del virus degli uccelli fu individuato nel sud della Cina in un allevamento di oche, tenuto, come consuetudine da quelle parti, in condizioni igieniche disastrose. E oggi? Nel villaggio di La Gloria, 2500 abitanti nello stato Veracruz, in Messico, celebre per la sua povertà e per i giganteschi allevamenti di maiali, non certo esemplari per pulizia e rispetto delle norme di tutela della salute.
E chi morì allora? Coloro che vivevano a contatto con gli animali infetti senza adottare le dovute precauzioni e il cui fisico era debilitato da unaltra malattia o con carenze immunologiche che abbassavano il livello degli anticorpi; guarda caso, come oggi. Ad ammalarsi non erano (e non sono) persone in salute, bensì predisposte, per un verso o per laltro.
Questo, evidentemente, non significa che uninfluenza mutuata dagli animali debba essere trascurata. Al contrario, ma un conto è monitorare una situazione e prendere le precauzioni nella giusta proporzione; un altro è ingigantire un problema locale e trasformarlo in un allarme mondiale, alimentando lo spettro di una pandemia.
Quando ciò accade è consigliabile diffidare. Cè odore di spin ovvero di quelle tecniche che consentono di orientare e talvolta di manipolare lopinione pubblica. A vantaggio di chi e perché? Sullaviaria - come dimostrò, tra laltro, una splendida inchiesta di Sabrina Giannini per Report - a beneficiarne furono una società di ricerca americana, la Gilead Science, a lungo presieduta dallex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, che aveva creato il Tamiflu. E la Roche, come noto, produce e commercializza lormai famosissimo antivirale, le cui vendite esplosero. Non si è mai saputo chi fu il regista; ma il film di allora assomiglia assai a quello di oggi, perché diffondere il panico collettivo è meno complicato di quanto si creda. A condizione di coinvolgere le istituzioni, che, spesso inconsapevolmente, garantiscono leffetto leva.
Loperazione richiede: primo, un committente, che resta sempre nellombra. Secondo, specialisti della comunicazione che sanno usare a proprio vantaggio le dinamiche della moderna società dellinformazione. Terzo, Una prova, vera o apparente: qualche morte sospetta, alcuni contagiati. Quarto, un angosciante mistero: la malattia sconosciuta e capace di evocare paure ataviche come quella dellinfluenza spagnola. Finché lallarme è confinato a una realtà locale, lopinione pubblica resta quieta; ma non appena un governo o un istituzione internazionale si accorge del problema, il panico inizia a diffondersi e si auto-alimenta.
Lallarme per la suina è scattato quando il governo messicano ha parlato al Paese con toni drammatici, seguito a distanza di poche ore da quello americano. A quel punto lOms è entrato in fibrillazione e, a ruota, tutti i governi del mondo. Quale Stato può correre il rischio di essere accusato di aver sottovalutato la «peste del Duemila»? E allora via con comunicati e conferenze stampa, che inviano messaggi spesso contraddittori. Il virus cè, ma non è grave. Anzi sì, e presenta «potenziale pandemico».
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