Questo è il giorno dei Tea Party. Oggi, a prescindere dai numeri e dai risultati. L’America ha votato, l’America ha scelto. Le elezioni di midterm consegnano agli Stati Uniti e al mondo la consacrazione più o meno evidente, più o meno meritata, più o meno concepibile di questo gruppo politico che non c’era e c’è, che non doveva resistere e ha resistito. I ribelli populisti che da mesi agitano la politica americana sono dentro, in quel mondo che per venti mesi hanno cercato di combattere; nelle stanze di quei palazzi che vorrebbero abbattere. Folclore certo. E oltre il folclore la loro battaglia anti-tasse, il ritorno alle origini della Costituzione, il trionfo della libertà individuale contro l’influenza sempre più forte dello Stato.
L’America dovrà parlare con loro più di quanto abbia fatto finora. E forse adesso, solo adesso, in molti capiranno che a rafforzare i Tea Party è stata l’incapacità di capirli e la voglia di demonizzarli. Perché l’America, una parte dell’America, non ha resistito alla tentazione di bollare questo mondo variopinto e ruspante, come una massa di zoticoni scesi in piazza con i forconi per abbattere l’icona di Barack Obama. Sono nati sì contro il presidente, ma anche contro i repubblicani. L’avversario erano i politici, erano le lobby che Obama sperava di cacciare e che invece in questi due anni hanno aumentato la loro influenza. Per troppo tempo Washington s’è fatta scivolare addosso le richieste e le esigenze di questo pezzo di Paese.
I Tea Party possono piacere o no, anzi è più facile che non piacciano, ma sono la dimostrazione che l’America è viva, che dal basso o dall’alto, con l’aiuto di finanziatori o con le proprie forze, si possa ancora creare un movimento che faccia opinione. È la politica. Ed è questo quello che è successo in questi mesi: mentre la stampa liberal di New York, di Washington, di Los Angeles li trattava da rozzi e grossolani manifestanti loro si rafforzavano, si organizzavano, si strutturavano. Non dovevano neanche partecipare direttamente a queste elezioni di midterm: oggi, invece, ne escono comunque da vincitori. Hanno facce e storie diverse tra loro, perché è vero che hanno portato al successo candidati discutibili, ma è vero anche che sono riusciti a creare facce nuove e potenzialmente brillanti. Prendi Marco Rubio, il giovane ispanico che oggi si prenderà un seggio del Senato per la Florida: è un prodotto dei Tea party, ma che in questi mesi ha dimostrato di saper parlare, oltre che urlare; di sapersi spostare al centro per conquistare gli indipendenti, di saper gestire la sfida con delle idee e non con gli insulti. Come lui ce ne sono altri.
I Tea Party sono la risposta partigiana e incompleta a un sentimento di ribellione popolare che si traduce in un dato che troppi hanno sottovalutato: una settimana fa, il 60 per cento degli elettori ha dichiarato di voler votare per candidati alternativi rispetto a quelli uscenti. Democratici o repubblicani non faceva differenza, se non nel fatto che con il Congresso a maggioranza democratica fino a ieri il più danneggiato da questa scelta sarebbe stato ovviamente il partito del presidente.
I Tea Party erano pronti lì, a intercettare questo disamore, proponendo una ricetta semplice e però facilmente comprensibile dall’America: basta con l’establishment che ti dà una pacca sulla spalla. I toni, i colori, le manifestazioni facevano parte del contorno, il messaggio no: contro la riforma della sanità, contro quella di Wall Street, contro i salvataggi di banche e comparto automobilistico. Contro tutto ciò che vuol dire troppo Stato. Troppo facile, magari. Eppure vincente, per il semplice motivo che gli Stati Uniti non sono e non vorranno mai essere l’Europa. I Tea Party hanno spaventato perché invece di sgonfiarsi sono cresciuti. Anche il partito repubblicano s’è impaurito, convinto che il fenomeno possa danneggiarlo più che agevolarlo. È quello che hanno sostenuto i giornali come il New York Times, incapace come la politica di capire cosa stesse accadendo. Il Wall Street Journal ha spiegato: ha detto ai repubblicani che la crescita del movimento avrebbe permesso loro di vincere le elezioni e ha detto ai liberal che non comprendere le ragioni del successo dei Tea Party significa non capire dove va l’America, e cioè verso una sfida strutturale nei confronti della cultura elitaria della politica.
I candidati vicini al Tea Party hanno usato slogan così: «Io non ho studiato a Yale».
Sei parole per spiegare che esiste un mondo oltre le aule delle università da 70mila dollari l’anno da dove escono il 90 per cento dei politici che finora hanno abitato le stanze del potere. Sei parole per dire che non era difficile capire che cosa chiedesse l’America che non si sente ascoltata. Bastava volerlo. Bastava farlo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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