Antonello Mosca
Olga Berluti è italiana di nascita, ma le circostanze la hanno fatta parigina di cuore. Nel 1959 Olga arriva in rue Marbeuf, la cattedrale, il luogo che racchiude tutta la storia e la magia di questo marchio di scarpe da uomo, esposte nella maison parigina come vere opere d'arte. Non diversamente da come lo sono a Londra, Tokio e Milano.
Ella passerà i primi dieci anni a studiare e discutere con alcuni clienti chirurghi la fisiologia del piede. Svilupperà un occhio "laser" che le permetterà di leggere e curare senza errori gli invisibili mali di piedi e della schiena dei propri clienti, immaginando poi nuove forme, colori e disegni.
Ultima erede di una famiglia che dal 1965 costruisce calzature per uomo, entrata dodici anni fa con la sua produzione a far parte del gruppo Lvmh, Olga Berluti è decisamente un'artista e in fondo come tale ella vive nella sua casa di Parigi.
Fin da quando Lei viveva in Italia è noto il suo interesse per il mondo dell'arredamento. è un interesse rimasto invariato?
«Mi ha sempre appassionato il tema dell'abitare - ci tiene a precisare la Berluti - perché è un grande punto di riferimento, proprio come la suola per il calzolaio. È paragonabile a quella di un architetto che deve mediare le esigenze strutturali di un edificio e rendere dinamico il suo interno: allo stesso modo il calzolaio deve far sì che il piede sia sostenuto nei punti giusti e possa senza disagi far ogni movimento».
La sua è certamente una casa particolare, che sembra avere un diverso tema di partenza, un'insolita guida.
«In effetti è così, perché quello che mi anima nell'arredare è la ricerca di qualcosa di diverso, che non si ritrovi facilmente, che non mi annoi, che abbia mille copie distribuite i mille case. Questo amore per il diverso non mi fa però dimenticare che tutto deve essere qualcosa di utile, e che nella casa non deve mancare il comfort, il piacere del relax».
C'è uno stile che ama di più?
«Quello di Carlo Rampazzi, l'architetto e designer di Ascona che è caratterizzato nel suo lavoro dal motto: l'insostenibile leggerezza dell'imprevisto. Uno stile il suo al di fuori di ogni regola, dove brio, intelletto, genio e umorismo sanno fondersi davvero perfettamente».
Lei è un'artista, quali sono i suoi autori preferiti?
«Adoro le sculture di Picasso e vibro davanti ai colori di Van Gogh, mentre Matisse mi seduce per la sua leggerezza».
Nella sua casa c'è un rifugio, un luogo dove si sente più a suo agio?
«Non credo, perché questo sta nel mio atelier di lavoro».
Come è il suo soggiorno?
«È un open space, molto luminoso. Ho abbattuto tutte le pareti lasciando in piedi solo un'antica porta del 1800. Ma è una porta che non varco mai, perché preferisco passare negli ambienti attigui passando proprio dove c'erano le pareti. In fondo la mia è una casa surrealista e lo sta a dimostrare anche la camera da letto, ben lontana dalle tante immagini che sono negli occhi di tutti. Pensi che in tutto l'ambiente vi è solo un materasso a terra, un giaciglio di lusso, che io uso a seconda dei tempo un poco per meditare e un poco per dormire.».
Anche la cucina è surrealista?
«Non credo, anche perché in questo caso si ha a che fare con operazioni e movimenti ben precisi. In ogni modo i mobili si fondono con le pareti e le attrezzature sono dell'ultima generazione tecnologica».
I mobili presenti nella casa hanno caratteristiche molto particolari.
«Deve tener presente che nella maggior parte dei casi li ho disegnati io e in altri ho reinterpretato esemplari famosi o storici».
Dell'arredo di oggi, cosa la affascina?
«Credo l'high tech, ne ammiro le lampade e i materiali utilizzati nella costruzione dei mobili, ma in parte anche lo stile etnico, perché in fondo oggi siamo tutti nomadi e pluriculturali, e quindi credo che abbia una sua ragione di essere presente in dosi, misurate, in qualunque casa».
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