I due precedenti anniversari dell’unità nazionale, quello del 1911 e del 1961, si celebrarono all’insegna di aspettative eccezionali. Nel 1911, la religione della patria, l’avvento della Terza Italia che tornava ad affacciarsi da protagonista sullo scenario politico europeo dall’alto dei «colli fatali di Roma». Nel 1961, il miracolo economico, la possibilità per ogni cittadino di avanzare, giorno dopo giorno, verso un progressivo miglioramento delle sue condizioni di vita, in un Paese sicuramente costellato di contraddizioni e di sacche di arretratezza, ma che si sentiva pronto ad affrontare rischi e sfide epocali sulla base di un grande capitale di fiducia condivisa.
Nel 2011, due elementi di carattere negativo sembrano, invece, dominare la scena. Una forte insicurezza sul futuro e la scomparsa della certezza dell’identità italiana. Si tratta di una percezione consolidata, diffusa capillarmente, forse, nella maggioranza degli Italiani, di cui ha dato conto un recente sondaggio lanciato sul sito della rivista Limes che brutalmente ha formulato i seguenti quesiti: Centocinquant’anni sono abbastanza? Ci conviene ancora uno Stato italiano? Oppure ce la caveremmo meglio senza?
Le risposte a questa sorta di referendum non sono state certo incoraggianti, almeno per chi concepisce ancora la nostra comunità civile come «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cuore», come scrisse Alessandro Manzoni in alcuni dei suoi versi meno riusciti. Qualcuno ha, infatti, ribattuto di considerare tutti gli Stati nazionali come una farsa e di sperare unicamente nelle associazioni di popoli volontarie e libere, non eterne e imposte dall’alto, arrivando addirittura a suggerire che la formula della Repubblica una e indivisibile andrebbe perlomeno rivista se non davvero abolita. Altri hanno replicato di vedere nel nostro Paese la metafora di un matrimonio combinato, dove gli sposi si conoscono appena, dove non esiste né amore né passione e dove l’unione è preservata da un familismo amorale animato da una paranoica corsa alla dissoluzione del patrimonio comune. Altri ancora hanno ribattuto di credere nell’esistenza dell’Italia, basata su elementi culturali, linguistici comuni, ma di considerare un grave errore l’averne sottovalutato fino ad ora le grandi differenze, derivanti da secoli di vicende mai completamente assimilabili, invece di esaltare quella «diversità nell’unità» che sul piano dell’ordinamento giuridico solo un serio e responsabile federalismo può rispecchiare.
Commentando queste risposte, Giuliano Amato (il Presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità d’Italia) ha ipotizzato che esse siano soltanto il frutto del separatismo leghista e della sua apologia dei localismi, alla quale ha fatto eco il riemergere delle identità pre-nazionali del Mezzogiorno con il rimpianto per la vecchia monarchia borbonica e l’elogio incondizionato del brigantaggio politico anti-unitario.
Personalmente ritengo invece che l’attuale crisi di identità italiana abbia radici più profonde e culturalmente elevate. Nel gennaio del 1915, Giustino Fortunato, un intellettuale meridionale, ben conscio della mancata integrazione del nord e del sud della Penisola, sosteneva, infatti, che la «anomalia italiana» (l’anormalità di un Paese «infinitamente debole, venuto su a galla per sola virtù del Caso») consisteva soprattutto nella poca o nessuna coscienza «della realtà storica anteriore al Risorgimento». Anche Antonio Labriola, pochi anni prima, pur non negando «l’unità di temperamento e di inclinazioni, che costituisce il popolo italiano nel senso storico della parola», aveva considerato indispensabile interrogarsi criticamente sul problema della nostro essere nazione.
Al compiersi del Risorgimento quel problema era apparso sorpassato, affermava Labriola, perché l’unificazione politica finalmente conseguita induceva a non dubitare più dell’unità della storia italiana, ma, a distanza di decenni dal 1861, proprio i modi di quell’unificazione, che avevano creato nuovi squilibri senza eliminare gli antichi contrasti, reclamavano nuove risposte a quel quesito secolare. Risposte che ancora oggi tardano a venire. Risposte che comunque è impossibile trovare, organizzando pellegrinaggi votivi allo scoglio di Quarto, alla rada di Marsala o sul colle di Calatafimi.
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