di Vittorio Sgarbi
Uscendo dalla «penombra che abbiamo attraversato», vedere dipinti di Lalla Romano è come leggere racconti di Giorgio Morandi. Quegli oggetti, quelle scatole, quei lumi, quelle bottiglie parlano, e ci dicono di una vita silenziosa e intensa, percorsa da pensieri algidi, e mobili, e da continui variabili turbamenti. Le emozioni, i brividi, le inquietudini dei giorni sempre diversi e sempre eguali si specchiano nelle cose che ci accompagnano, silenziose e utili, o anche inutili, ma consuete, rassicuranti. Uno speciale realismo magico: «Solo i miracoli sono reali, solo le favole sono vere». Una fuga dal reale assai diversa dal dolore delle cose di Morandi, che è letteratura dipinta. Il poeta che è in Morandi non ha bisogno di una vita nuova, di una reincarnazione: si esprime in una pittura estremamente lirica, spesso dolente, che trova il suo equivalente in Eugenio Montale. Morandi è più montaliano di Montale pittore.
In Lalla Romano, la pittrice non ha bisogno di parole, ha la sua propria lingua, in parlanti nature morte e soprattutto in ritratti insinuanti di vite fragili (in qualche modo soutiniani), in dialoghi familiari, come con la sorella Silvia: «Quella che nella penombra abbiamo attraversato si chiamava la sorellina, un po' mia vittima, fu sempre nella vita l'amica più devota, la sostenitrice indifesa e perfino ancora un po' vittima». Non dissimili, ma più inquietanti i suoi personaggi letterari: «Minuziosamente, con una precisione da cartella clinica niente affatto pietosa, vengono registrati gli incontri-scontri fra istinti analoghi e divaricati in una quasi sacrilega ricerca di reciproca offesa». Così dice delle Parole tra noi leggere Anna Banti: ma si può verificare anche nella pittura che accompagna i pensieri prima delle parole, non come un linguaggio parallelo, ma, per molti anni, come il linguaggio dominante, se non esclusivo. Ritratti sfuggenti, evanescenti, profili perduti, volti sognati, in equilibrio fra la severità aristocratica di Casorati e il lessico familiare di Francesco Menzio, documentano una pittrice vera. Le nature morte sono l'estremo svolgimento di Valori plastici, in una declinazione onirica, già ricordata prima di essere stata. «Il mio sogno è nutrito d'abbandono,/ di rimpianto./ Non amo che le rose che non colsi./ Non amo che le cose/ che potevano essere/ e non sono state...». A questi versi sembrano dar forma i dipinti di Lalla Romano, ritratti, nature morte, paesaggi.
Negli anni della formazione ha tra i suoi docenti Annibale Pastore, Ferdinando Neri e Lionello Venturi, tre maestri che, in forme diverse, orientano le tre future «passioni» costanti: filosofia, letteratura e arte. Venturi, in particolare, le apre gli orizzonti della pittura contemporanea, indirizzandola verso gli impressionisti e i post impressionisti francesi, da Manet a Bonnard. Lalla, che già da ragazza aveva cominciato a dipingere, seguendo l'esempio del padre, dal 1924 al '28 frequenta a Torino lo studio del pittore Giovanni Guarlotti. In quegli anni è spesso a Parigi, ospite dell'amica degli anni del collegio torinese Andrée Arnoux. Per suggerimento di Lionello Venturi entra nella scuola di pittura di Felice Casorati. E nasce una profonda amicizia con il maestro, con la sua compagna Daphne Maughan, con Nella Marchesini e altri allievi, come Paola Levi Montalcini e Giorgina Lattes. Continua a dipingere fino al 1946, quando sceglie di darsi esclusivamente alla letteratura. Dopo più di mezzo secolo, nel 1999, i suoi quadri sono esposti al Serrone della Villa Reale di Monza, nella mostra intitolata «Lalla Romano: poesia del segno. Dipinti, disegni e documenti», curata da Antonio Ria con la collaborazione di Carlo Bo e Roberto Cassanelli.
Il nome di Carlo Bo, alla fine di questa palingenesi, ci riporta, nel nuovo millennio, alle ragioni per cui, dopo una viva fraternità letteraria, fondata su pagine critiche e corrispondenza, Urbino nella sua Casa della poesia propone una nuova mostra, ricca di documenti inediti, di Lalla Romano. Che certifica definitivamente la piena consapevolezza della differenza, e anche della fisica distanza, fra pittura e letteratura. Lalla torna in sé, dentro la sua coscienza, scrivendo, in una «durata» interiore che non ha fine, che non si compie, che continua a vivere nelle parole. Mentre il dipinto si allontana, ha una vita autonoma, è altro da sé, come lei spiega in una pagina illuminante: «La pittura non è qualcosa di distaccato da me. Forse nemmeno questi quadri, che in parte erano rimasti con me, in parte in case altrui, acquistati o regalati, in tutti e due i casi con molto rimpianto. Una poesia non è perduta, se è stampata o regalata, un quadro sì: la riproducibilità non esiste, forse nemmeno per la fotografia. Devo precisare. La pittura non consiste nei quadri fatti, ma nel farli. Anche nei quadri peggio riusciti la cosa era avvenuta, e sembravano belli comunque. Avevo l'abitudine di rovesciarli, per goderli senza giudizio critico. A giudizio avvenuto, ho sempre constatato che il dipingere era stato più vitale, felice nell'immediatezza: certo della visione, ma anche dell'azione. E come sono vissuta, separata dai miei quadri, e soprattutto dall'esercizio della pittura? In realtà io dipingo sempre mentre guardo: allo stesso modo scrivo sempre. Così sono vissuta, così vivo. Cosa vuol dire ricomparire, anzi, apparire, mostra, catalogo, oggi, coi miei quadri di allora? Abbastanza lontani per non farmi soffrire troppo, ancora abbastanza miei da poterli riconoscere, anzi, anch'io scoprirli. A chi può interessare oltre che a me? Per me non è stato un interesse, ma un incontro amoroso. Però, come dice Zeri, si tratta di un amore freddo. Significa: calma, distacco; assenza di timore come di modestia. Perciò, nei miei brevi commenti, ci sono accostamenti direi inventati e non per questo meno veri. Ho chiamato inventata la storia della mia giovinezza: libro più che mai autobiografico. Ebbene, anche questo catalogo è un libro autobiografico». Un'altra parte della sua vita, che è come quella di un'altra persona.
Di questa doppia vita creativa, rara, così netta e secca in un poeta, che, in analoghe esperienze, conserva i due registri espressivi, sovrapponendoli, alternandoli, ma non spezzando in due tempi la propria creatività, anche nell'esprimere sensibilità affini e concomitanti, offre letteraria testimonianza Francesco Petrarca nel primo sonetto del Canzoniere: «Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri ond'io nudriva 'l core/ in sul mio primo giovenile errore/ quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono».
Era in parte «altra» Lalla Romano pittrice? O ha semplicemente tradotto in letteratura la sensibilità espressa in pittura, nel suo «primo giovenile errore»? È questo il mistero di una vita aperta, plurale, due volte compiuta, e rigenerata per volontà dell'uomo che le ha dato una seconda felicità sentimentale, recuperando la sua prima creatività sterilizzata. Una storia unica, in questi incroci creativi ed emotivi. Chi osserva i disegni e i dipinti (sia pure nella dimensione dilettantesca dichiarata) di Eugenio Montale, li sente come espressioni di una sensibilità coerente e costante rispetto ai versi: forme diverse di uno stesso pensiero. Ciò non è così certo in Lalla Romano, che dice altro, e più drammatico e dolente, scrivendo. La pittrice ha una sua personalità separata, come scrisse Albino Galvano, avendola vista nel 1940 alla XII Esposizione sindacale di Torino (XCVIII della Promotrice): «Né l'autoritratto che in Lalla Romano conferma le doti della miglior pittrice che sia presente in questa mostra, e di uno dei temperamenti femminili più schietti che abbia la pittura torinese, potrà darci dei rimorsi, ma sì dovrebbe darne a quelli che per molte esposizioni, e in parte anche in questa, hanno collocato i suoi quadri in modo disperso e non evidente». A Galvano erano chiare l'unità e la coerenza della poetica di una vera pittrice, come conferma anche Montale che ne apprezza le intuizioni di critica d'arte. Ma è in lei che si insinua il dubbio, e conquista spazio, per insoddisfazione o per esaurimento, l'«altra»: «Avevo conosciuto a Parigi l'arte moderna e potevo comprendere che tutti, aperte le frontiere della libertà, assimilassero rapidamente i nuovi indirizzi e trasformassero d'acchito la loro sensibilità; ma ormai sentivo la freddezza per questi problemi e, pur rimpiangendo la bella vita del pittore, mi ritrovai a sentire più mia la scrittura».
La pittrice sembra morire con il padre, nel 1947.
La conclusione, dopo mezzo secolo, è un paradosso: «Come sono vissuta separata dai miei quadri, e soprattutto dall'esercizio della pittura? In realtà io dipingo sempre mentre guardo: allo stesso modo scrivo sempre... Devo compiere il passo definitivo. Riconoscere che la mia pittura era scrittura».
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