Avevano perso tutto. La casa, gli affetti e le tombe dei propri cari sulle quali non potevano più piangere. Avevano dovuto abbandonare in fretta e furia la loro terra - molto spesso caricando quei pochi averi che avevano deciso di portare con sé - su barche scalcagnate. Essere italiani in Jugoslavia, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, era pericoloso. L'equazione era sempre la stessa: sei italiano? Allora sei fascista. Non era così, ovviamente, ma Josip Broz Tito vedeva nemici ovunque. Furono 350mila i nostri connazionali che dovettero abbandonare l'Istria e la Dalmazia. Tra loro c'erano ricchi possidenti e poveracci. Dottori e contadini. Maestri e analfabeti.
L'Italia non li accolse come avrebbero meritato. Vissero per anni in campi profughi orribili, dove le famiglie, spesso numerose, venivano stipate in saloni enormi e l'unico modo per avere un po' di intimità era quello di tirare dei fili ai quali venivano appoggiate delle lenzuola. Nel Dopoguerra, 350mila persone dovettero ricostruirsi un futuro da sole, contando unicamente sulle proprie forze. Si dice che gli istriani siano un po' come le loro capre: hanno la testa dura e sono determinati. È così. Ma lo stesso si può dire dei dalmati. Tra le tante storie che si possono raccontare sulla tragedia dell'esodo, ce ne sono tre che rappresentano delle vere e proprie imprese. E non solo nel senso di azioni eroiche dei singoli personaggi che le hanno compiute, ma anche in quello di vere e proprie industrie che rappresentano il fiore all'occhiello del nostro Paese.
I MILLE COLORI DI MISSONI
Ottavio Missoni era bello, simpatico e affascinante. Fece la guerra, in Africa, e venne catturato. Passò anni in prigionia dove fece fruttare quel tempo sospeso per allenarsi. Era un artista che lavorava per vivere e non viceversa. Amava gli sport e, inizialmente, si mise a produrre delle tute da ginnastica. Ma non poteva bastargli. Era un mago dei colori, che amava mischiare per creare cromie che ricordavano il blu del mare dalmata o i verdi e i marroni di quella terra. Incontrò una donna altrettanto affascinante, Rosita, e si amarono profondamente e a lungo. Da questa unione nacque un brand di moda che, ancora oggi, veste le donne e gli uomini più eleganti al mondo. «La passione per la moda era mia», rivendica ancora oggi con orgoglio Rosita. Gli anni Sessanta rappresentano il trionfo dei Missoni. La prima sfilata, a Milano, è un successo. Il resto è un crescendo rossiniano.
I LUXARDO E LE CILIEGIE
Dalmata come Missoni è anche la famiglia Luxardo. Girolamo, il fondatore dell'azienda, era un viaggiatore. In realtà, era di Santa Margherita Ligure, ma all'inizio dell'Ottocento, si spostò prima a Trieste e da lì in Dalmazia. In quella terra trovò la sua fortuna, le marasche, ciliegie acide tipiche di quelle zone. A Zara e dintorni, il Maraschino era già prodotto e, quando Girolamo fondò l'azienda, in città c'erano già 15 distillatori. Perfezionò la ricetta e, alla fine, registrò il proprio marchio. Fu l'inizio di un'avventura che, da Zara, arrivò a Fiume, al fianco di D'Annunzio. Piero, discendente di Girolamo, raggiunse il Vate e, dopo avergli offerto un liquore di ciliegia, lo vide estasiato. Era uomo di marketing e, così, inviò qualche cassa a D'Annunzio che, di lì a poco, battezzerà quel liquore Sangue Morlacco. La Seconda guerra mondiale, con i bombardamenti alleati su Zara, spazzò via la storica azienda dei Luxardo che, nel frattempo, furono costretti a fuggire. «Mio padre - racconta Franco Luxardo - fu l'unico sopravvissuto e dovette pensare alle famiglie dei fratelli. Io avevo solo 10 anni nel 1946, ma so bene quanto si sia dato da fare. Trovò un terreno favorevole per piantare nuovamente le marasche e, con molto coraggio, ripartì insieme a Nicolò, uno dei giovani nipoti (quinta generazione)». Oggi l'azienda conta 60 dipendenti e vende i suoi prodotti in oltre 100 Paesi del mondo.
LA FAMIGLIA BRACCO
Passando sulla tangenziale est di Milano, compare una grande scritta: Bracco. Fulvio fu l'uomo che rivitalizzò l'azienda familiare con coraggio e passione. Anche per lui il Dopoguerra rappresenta il momento più difficile. I contatti con la Merck, l'azienda tedesca con la quale aveva collaborato a lungo, sono ai minimi storici e non è possibile trovare le materie prime per portare avanti la sua impresa. Decide così, nel 1949, di aprire un nuovo stabilimento a Lambrate: «Ricordo di quel periodo il momento più bello. Era la primavera del 1951 e mi consegnarono il primo chilogrammo di Diazil, finalmente prodotto direttamente nel nostro stabilimento.
Devo dire che mi commossi non poco», racconta Bracco che, di lì a poco, verrà insignito dell'onorificenza di Cavaliere del Lavoro. Continua a guardare al futuro con un occhio sul passato e, nel 1952, istituisce alcune borse di studio, intitolate alla madre Nina Bracco Salata, per neo laureati giuliano-dalmati delle Facoltà scientifiche.
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