Botero era di casa a casa mia, sebbene non lo conoscessi personalmente. Da tanti anni facevo colazione sotto il manifesto della sua mostra di Firenze del 1991, tenutasi al Forte Belvedere. Conservo siccome reliquia anche il catalogo, firmato da Vittorio Sgarbi, ma quello è conservato in uno scaffale mentre il manifesto sta in cucina e ce l'ho sotto gli occhi continuamente. Fungeva e funge da compagnia e da monito: ecco come ci si riduce a mangiare troppo!
Basta biscotti! Niente ciambelle! Il quadro riprodotto rappresenta una famiglia-tipo e però del tipo di Botero e pertanto padre grasso, madre grassa, figlio grasso, figlia (neonata) grassa, gatto grasso. Tutti grassi. Come nessuno ignora (lo cita perfino il generale Vannacci nel famoso bestseller) l'artista colombiano ha sviluppato il suo peculiarissimo stile all'insegna del vecchio detto «Grassezza fa bellezza». Ma perché? Io lo so o almeno lo ipotizzo.
Da una parte l'ammirazione per Tiziano e per Rubens, pittori dell'opulenza femminile, scoperti a vent'anni in Europa, durante il grand tour pagato coi soldi di un premio artistico di Bogotà. Dall'altra l'esplicito desiderio di rappresentare «la classe media colombiana. Uomini e donne normali». Normali e dunque, al tempo della sua formazione (gli anni Quaranta-Cinquanta), tendenzialmente in carne. Ricordarsi che in Italia all'epoca spopolavano le maggiorate... Fu un momento magico: finita l'età della penuria non era ancora giunta l'età della sazietà. L'obeso non era ancora obsoleto e nessuno conosceva la parola anoressia. Botero, come Renoir, Zorn, Guttuso, e come in altro campo Fellini, attingeva ai pozzi profondi della psiche maschile, là dove si estraggono i sogni della carne abbondante.
Qualcuno potrebbe obiettare che i donnoni degli artisti succitati sono erotizzanti e quelli di Botero poco o niente. Dipende. Se parliamo dei donnoni dipinti posso convenire, se parliamo dei donnoni scolpiti, anzi fusi in bronzo, non sono dello stesso avviso. Botero era sia pittore che scultore: ha cominciato come illustratore, è diventato famoso grazie ai quadri ma, secondo me, resterà per le sculture (spesso realizzate a Pietrasanta, dove aveva una casa). E non solo per via del materiale più durevole. Il Botero bidimensionale è solamente ottico: la carne si vede ma non si sente. Il Botero tridimensionale è anche, per usare un aggettivo caro a Bernard Berenson, tattile. Estremamente tattile. La carne oltre a vedersi si percepisce come reale e ti viene voglia di toccarla. Penso alla Donna seduta, alla Donna con specchio, alla Donna con sigaretta e ancor più alla Leda e il Cigno del 1996. Possono respingere oppure attirare, eccitare. O magari respingere ed eccitare al contempo. Così come possono respingere o eccitare, o entrambe le cose, le veneri steatopigie del Paleolitico. Chiaramente è questione di gusti: il mio sarebbe di assestare una pacca su tanto ben di Dio...
Esiste una parola specifica, una parola difficile, agalmatofilia, per designare la perversione di chi prova attrazione fisica per le statue. La descrisse Ovidio nelle Metamorfosi e se un poeta di oggi decidesse di riprendere il tema proprio a Botero potrebbe ispirarsi. Un'arte tanto caratterizzata non poteva incontrare tutti i gusti, né erotici né artistici. A storcere il naso erano soprattutto gli addetti ai lavori. Una pittrice mi ha confessato di amare Guttuso quasi vergognandosene, bisbigliandomi. Meglio non si sappia in giro... Piacendo alle persone normali e non necessitando di intermediazione, Guttuso risulta sgradito agli accademici. Figuriamoci Botero, ancor più massimalista e molto meno comunista. O forse comunista per niente. Almeno dal punto di vista artistico era un fior di reazionario, sebbene rifiutasse la qualifica: «Reazionario io? Sono un rivoluzionario, invece: sono sempre andato controcorrente. Ora c'è una vera dittatura culturale che sta distruggendo la pittura e la scultura. Andare contro l'egemonia di critici, curatori e galleristi non è forse rivoluzionario?». Di sicuro era allergico alla trasgressione fine a sé stessa, al nichilismo, al duchampismo che si ripete da cent'anni: «Basta con questa storia delle avanguardie. Di opere che sono solo provocazione. Nessuna avanguardia è per sempre. Altrimenti, che senso ha?». Altra frase parecchio significativa: «Non vado alle mostre, preferisco il Louvre». Nel 1992 lo hanno invitato alla Biennale di Venezia ma ci dev'essere stato un errore.
Torno alle ipotesi sulla grassezza. La prima, dicevo, riguarda l'amore per l'arte carnosa del passato. La seconda rimanda alla fisionomia dei borghesi colombiani e non solo colombiani della sua giovinezza (borghese lo era lui stesso: suo padre era un uomo d'affari, la prima moglie fu ministro della Cultura, il primo figlio fu ministro della Difesa, vestiva sempre correttamente, abitava in magioni lussuose...). La terza la avanzo ora e concerne la riconoscibilità. Gli artisti di universale successo sono, di norma, immediatamente riconoscibili: non c'è bisogno di una laurea in storia dell'arte, né di leggere la didascalia, per riconoscere un Picasso o un Dalì. Botero, uomo intelligente o forse proprio scaltro, ha seguito questa scia.
Afferrando quell'unicità che rende immortali e permettendosi anche di riderci su: «Un'opera deve poter sostenere il tempo. Tra mille anni vedendo le mie sculture penseranno: accidenti, com'erano tutti grassi negli anni Duemila».
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