L'autobiografia di Enia: mafia "nevrosi collettiva"

"Autoritratto" è lo spettacolo che prende il via da un'"ammazzatina" e poi parla dell'interiorità

L'autobiografia di Enia: mafia "nevrosi collettiva"
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Il teatro di narrazione vanta, in Italia, un particolare numero di solisti che lo rendono, dopo cinquant'anni, un genere ancora appetibile. Davide Enia ha trovato un suo spazio e una sua forma di racconto che utilizza mezzi diversi, ovvero la voce, il corpo, il canto, il dialetto, "u cuntu" e la recitazione. Il suo impegno è di carattere sociale e civile, perché porta in scena argomenti che riguardano la nostra storia presente e passata, senza retorica. Per essere attore solista, occorrono delle qualità che gli permettano di relazionarsi col pubblico, di renderlo parte attiva, di condividerne i sentimenti, ma di essere anche un performer che occupa la scena, non certo con metodo mimetico, grazie a una scelta di libertà che gli consente una maniera di rapportarsi, con l'Altro, in una forma inconsueta. Bisogna distinguere, però, la narrazione solista dalla narrazione collettiva, la prima ha come oggetto, un personaggio storico, come Matteotti, Hitler, o Margherita Sarfatti. La narrazione collettiva ha, come oggetto, un evento sociale, con una molteplicità di luoghi e di personaggi.

C'è, poi, la narrazione di tipo autobiografico, quella scelta da Davide Enia per lo spettacolo «Autoritratto», in scena da oggi al Piccolo Teatro Grassi. L'autoritratto, che l'artista fa di se stesso, gli offre l'opportunità di esprimere le proprie emozioni, di condividerle con gli altri e di sperimentare nuove tecniche, come quella della ritualità, nei momenti in cui la parola si trasforma in litania, con cui l'attore cerca di aggirare la tragedia che sta raccontando che, in questo spettacolo, ha per protagonista la mafia, vista con gli occhi del fanciullo che, a otto anni, si trova dinanzi a una "ammazzatina", ben diversa da "ammazzato", perché si riferisce a persona di poco conto, mentre il morto ammazzato appartiene a una categoria superiore, come potrebbe essere quella di un politico, tipo Salvo Lima, ucciso barbaramente. Ma l'omicidio più osceno, per Enia, è quello di Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell'acido, la cui colpa era stata quella di essere figlio di un collaboratore di giustizia. Non c'è mai enfasi quando Enia racconta il potere del Male, quello messo in atto dai Corleonesi che aveva il suo diavolo nel Capo dei capi, ovvero Totò Riina, l'artefice malefico della morte di Pino Puglisi che era stato il suo professore di religione, oltre che di Falcone e Borsellino. Sono argomenti che, ormai, fanno parte di un patrimonio comune e che appartengono alla Storia, ma che Enia si guarda bene di raccontarci facendo ricorso alla cronaca o alla narrazione di tipo giornalistico.

L'autoritratto, allora, diventa un «genere» teatrale, con i suoi tempi, con la sua semplicità, col suo procedimento analitico e psicanalitico, con quel potere di scavare dentro il marcio di una città dove tutti sono coinvolti, tanto da potere affermare che non è importante capire la mafia in sé, «quanto comprendere la mafia che è in me», che non vuol dire che, a Palermo, si è tutti mafiosi, perché trattasi, da parte dell'attore-autore, di un invito a conoscersi per conoscere gli altri. Compito del teatro, sembra dirci Davide Enia, non è quello di fare spettacoli, ma di entrare a fondo in una realtà malata e capirne le origini del male.

Alla fine, il procedere mafioso potrebbe essere il frutto di una «nevrosi collettiva», a cui, i maggiori psicoanalisti non riescono a dare delle soluzioni definitive, proprio perché quella mafia che c'è dentro di noi è difficile da estirpare.

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