Viviamo nell'epoca dell'«avanguardia del già fatto», come l'ha definita Alessandro Gnocchi mentre parlavamo di arte, sommersi da infinite discussioni sulla banana di Maurizio Cattelan venduta a sei milioni di euro. È arte? Non è arte? Per quanto mi riguarda Cattelan è un pubblicitario di se stesso che si muove bene nel marketing. L'opera è l'essere riuscito a far comprare all'asta una banana attaccata al muro con del nastro adesivo, punto. Ma anche questo è molto déjà vu, con la differenza che manca un pensiero, dietro la banana di Cattelan c'è solo Cattelan. Che mica è scemo, intendiamoci, provatevi voi a vendere una banana a sei milioni.
Tuttavia basta pensare alle avanguardie storiche, e al padre dell'arte contemporanea, Marcel Duchamp. Colui che ha inventato il ready-made, «un oggetto comune, scelto dall'artista, elevato alla dignità di opera d'arte». Il primo ready-made fu il famoso Orinatoio, che Duchamp espose nel 1917 alla mostra organizzata dalla Società degli Artisti Indipendenti a New York. Molti non sanno che gli orinatoi che trovate in giro per i musei (uno anche a Roma, alla Gnam) non sono originali, sono repliche autorizzate dallo stesso Duchamp nel 1964. Anzi, tutti i ready-made furono persi, e tutti i ready-made che vedete (dalla ruota di bicicletta allo scolabottiglie) furono persi, perché diventarono importanti in seguito. «Per me fu un enorme scherzo» dichiarò Duchamp con il suo sorrisetto sornione in una delle sue ultime interviste. «Ma la Storia lo ha reso importante, un po' come succede per le religioni».
Negli anni Sessanta infatti Duchamp divenne un punto di riferimento mondiale per gli artisti, ma lui li guardava con sospetto. Già all'epoca era stato fatto tutto, ma diciamo che c'era dell'impegno, e anche delle menti geniali che sul già fatto riuscivano a tirare fuori cose nuove. Se un oggetto scelto dall'artista diventa opera d'arte, anche le feci dell'artista sono opere d'arte, e Piero Manzoni si inventò le scatolette di Merda d'artista, e poi un palloncino contenente Fiato d'artista, e tra le molte cose anche una mostra, la «Consumazione dell'arte dinamica del pubblico divorare l'arte», nel 1960 alla Galleria Azimut a Milano, dove i visitatori avrebbero mangiato uova sode con l'impronta digitale dell'artista. Vi ricorda qualcosa? Già, il miliardario cinese che mangia la banana che ha comprato per sei milioni di euro. Solo che nel caso di Manzoni l'arte spariva, veniva mangiata, era quell'evento lì. Morì a trent'anni, povero, a Sotheby's non avrebbe mai pensato. Come per Duchamp, per lui contava il pensiero, sebbene chi comprò le sue scatolette di Merda d'artista si ritrovò un piccolo patrimonio. Secondo voi erano più avanti Duchamp o Manzoni, oppure Maurizio Cattelan?
Duchamp di ready-made ne fece una trentina in tutta la sua vita, «avrei potuto farne trenta in un'ora», ma avrebbe svilito il senso stesso del ready-made, avere un senso, un significato, tant'è che sull'Orinatoio, che fu esposto ribaltato, intitolato Fountain, e firmato con uno pseudonimo, R. Mutt, sono stati scritti centinaia di saggi, anche perché la rete del pensiero di Duchamp, tra alchimia, giochi di parole e di specchi, era molto complessa.
Arte e immaginario pop? Il più grande, lo sappiamo, fu Andy Warhol, che i suoi quadri li serigrafava prendendoli da fotografie, seguendo la logica duchampiana. A proposito, The Velvet Underground & Nico, leggendario gruppo rock, chiese proprio a Andy Warhol di realizzare la copertina del loro nuovo album del 1967, e Andy Warhol ci mise... una banana! Mentre con i suoi quadri rifletteva e faceva riflettere sulla società contemporanea, e sono tutt'ora attualissimi: prendere prodotti commerciali, dalla Coca Cola alla zuppa Campbell, e riprodurli all'infinito, così come i personaggi famosi, da Marilyn a Elvis, così come foto terrificanti, come incidenti stradali (la serie dei Disaster) che però riprodotti decine di volte su una tela perdevano la loro drammaticità, eccezionale metafora dell'assuefazione delle immagini trasmesse dai media. «Se una cosa la vedi cento volte, a un certo punto non ti fa più effetto». Così anche per le sedie elettriche, stampate su tele colorate. Cito a memoria: «È incredibile quante persone siano disposte a spendersi per mettersi in camera il quadro di una sedia elettrica, soprattutto se il colore si intona a quello delle tende». Questo è il genio. Che a differenza di Piero Manzoni sapeva fare affari, ma a differenza di Cattelan faceva anche pensare.
Insomma, basta andarsi a studiare le avanguardie storiche dei primi del Novecento, e quelle degli anni Sessanta, per scoprire che non solo erano geniali, ma rispetto a quelle quanto siano banali gli artisti di oggi. Attenzione però a non fare un errore: la soluzione non è tornare indietro. Al riguardo ricordo un famoso saggio del 1948, Perdita del centro, di Hans Sedlmayr, un critico austriaco che si lagnava dell'arte contemporanea, rimpiangendo i polittici gotici, e era stato nazista e primo fan di Hitler. Che, come sappiamo, distrusse le opere d'arte contemporanee, bollandole come arte degenerata, e tra i degenerati c'erano gli espressionisti più incredibili, da Paul Klee a Gustav Klimt.
Infine, una nota sulla mostra alla Gnam di Roma dedicata al Futurismo. Ne ho lette di cotte e di crude e di gelate e di semifredde, a seconda dell'orientamento politico, prendendola per una mostra fascista, fraintesa un po' da tutte le parti, a piacere e secondo le proprie convenienze e ideologie. Ma il Futurismo, prima avanguardia italiana a diventare influente a livello europeo, si chiamava appunto Futurismo, non Passatismo. Guardava avanti, non indietro. Alla velocità, alla tecnologia, alle meraviglie della modernità.
Marinetti ha fatto errori politici? Si è avvicinato troppo al fascismo? Sì, ma non era un politico, era un artista, e tutto va contestualizzato, e nell'arte mai strumentalizzato. Tornando alla domanda iniziale: come uscire dalla crisi del già fatto? Sta agli artisti inventarsi qualcosa di nuovo, una banana non basta, e neppure ingranare la retromarcia.
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