Il lavoro che ormai tutti rifiutano: fare l’europarlamentare per il Pd

Campagna acquisti mesta: pochi volti nuovi, tanti nomi di apparato Così Franceschini riesuma il trombato Soru, l’onnipresente Bettini, il contestato Cofferati

Il lavoro che ormai tutti rifiutano:  
fare l’europarlamentare per il Pd

RomaAdesso l’onda del «restyling» di immagine del Pd, innescata da Dario Franceschini, rischia di infrangersi sullo scoglio aguzzo delle candidature delle liste europee. Mentre il segretario si è mosso in modo tonico, con dichiarazioni e iniziative personali che sicuramente si sono ritagliate spazio mediatico, il bilancio della campagna acquisti delle liste, per ora, è tutt’altro che esaltante: poche novità, pochi nomi prestigiosi, zero intellettuali, molto apparato e qualche sparuto volto nuovo, che sembra giustapposto ad un corpo anagraficamente e politicamente molto più antico. Certo, la partita non è ancora chiusa, ma il primo bilancio che si può trarre - per ora - è questo.

E per gli uomini di via del Nazzareno è un segnale allarmante: il nuovo corso veltroniano, infatti, iniziò a morire proprio quando il vestito nuovo del discorso del Lingotto si ritrovò imbracato nella maldestra imbracatura delle liste per le politiche. Le idee, da sempre camminano sulle gambe degli uomini. Per la Democrazia cristiana le competizioni elettorali erano l’occasione per far scendere in campo i campioni del voto e del consenso (o anche qualche volto nuovo come Alberto Michelini). Per il Pci le belle liste erano da sempre il fiore all’occhiello. Botteghe Oscure riusciva sempre a condire le sue liste con una varietà di bei nomi, indipendenti, persino stranieri, come il politologo francese Maurice Duverger, che veniva eletto in Italia in nome del galateo socialista internazionale, e un padre dell’Europa come Altiero Spinelli ritrovò la falce e martello a quarant’anni dal suo passaggio all’azionismo. Persino il Pdci può vantare qualche gioiello di famiglia, come la popolarissima astronoma Margherita Hack, e la neonata sinistra, oltre ai suoi leader - da Nichi Vendola a Claudio Fava - ha già ottenuto da Beppino Englaro una copertura da «garante» e dall’astronauta Umberto Guidoni una nuova candidatura.

Per ora, invece, il bilancio di Franceschini, soprattutto se letto analiticamente, è alquanto magro. Nel Lazio - a parte la guerra per il posto di capolista - l’immagine che si proietta è incredibilmente logora. Da un lato Goffredo Bettini (possibile numero uno), l’uomo, cioè, che prima delle elezioni politiche aveva spiegato che lui teneva molto «allo spirito di servizio», «che non si fa politica per una poltrona», e che «non mi ricandido perché intendo occuparmi a tempo pieno del partito». Ora i casi sono due: o non era vero quello che diceva, o al partito non lo vogliono più. Sta di fatto che il Pd si presenta nel Lazio, con un dirigente che era segretario della federazione romana del Pci nel 1987 (!!!). D’altro canto, l’alternativa cattolica non sembra da meno, in quanto a sfavillante segnale di novità. Si tratta addirittura di Silvia Costa, una che era passata alla storia per essere il (bel) volto nuovo della Democrazia cristiana dell’era demitiana alle politiche del 1982. Dalla toscana arriva l’auto-incatenante Leonardo Domenici (un altro che era «disgustato dalla politica di oggi» e solo tre mesi fa annunciava di voler saltare un turno). E sempre dalla capitale, il nome lanciato in pole position da Franco Marini è - nientemeno - che quel Gabriele Mori che fu assessore delle giunte pentapartite della Prima repubblica, ai tempi di Franco Carraro.

Al Sud la situazione è ancora più complessa. Il nome forte da spendere, nelle intenzioni del loft, sarebbe quello di Sergio D’Antoni: ovvero di uno dei più noti leader sindacali della Prima repubblica, ma anche l’uomo che condivise l’avventura di Democrazia europea con Giulio Andreotti (il bello è che lui non è ancora convinto...). Alle sue spalle, invece, c’è lotta al coltello. Massimo D’Alema ha lanciato un nome, quello dell’ex ministro Paolo De Castro, nato sotto la stella prodiana, e poi accasato presso quella del leader Maximo. Secondo D’Alema è il modo migliore per sedurre i centristi e i moderati, ma gli ex popolari del Pd non l’hanno presa bene, perché - dicono e ripetono in ogni sede - «visto che è il presidente di Red, tutt’al più potrà rappresentare la sinistra». Un altro che ambirebbe a correre da numero uno in quella circoscrizione è Umberto Ranieri, da sempre nome di punta dell’area riformista, ex sottosegretario coltivato nel laboratorio del «migliorismo campano». Nelle isole apre la lista l’ex sindaco repubblicano Enzo Bianco, cui potrebbe aggiungersi Rita Borsellino, sorella di Paolo, giudice antimafia (che è molto corteggiata anche dalla Sinistra di Claudio Fava, l’uomo che da segretario dei Ds la lanciò come candidata alla Regione Sicilia). Gli uomini di Franceschini vedrebbero di buon occhio anche l’ex governatore Renato Soru, che ha da poco rimesso in campo un suo movimento in Sardegna e che malgrado lo smacco viene considerato ancora molto popolare.

Solo nel Nord Est c’è un forte segnale di innovazione, con la possibile assegnazione del ruolo di capolista a Debora Serracchiani, «la giovane Bindi» che deve la sua gloria a un discorso di dodici minuti in cui ha sparato a palle incatenate sul quartier generale. Ma si parla anche insistentemente di Vittorio Prodi, fratello del più celebre Romano, amministratore locale emiliano romagnolo. Non è ancora del tutto sciolto, poi, il dilemma di Sergio Cofferati, che dopo la scelta di non ricandidarsi a sindaco di Bologna per la sua recente paternità, è stato bersagliato da non poche critiche soprattutto in Liguria, regione di approdo della sua nuova famiglia, dove la presidente della provincia Marta Vincenzi non ha nascosto le sue perplessità.

La scelta di cui sicuramente Franceschini dovrà rendere conto dopo il voto (e quindi a seconda del risultato) è quella di non far scendere in campo nessun candidato di bandiera. Nessun parlamentare, nessun presidente di Regione. I maligni hanno ribattezzato questa norma di incompatibilità il cavillo «anti-Bassolino». Ovvero il principio generale che servirebbe a risolvere un caso particolare, quello del presidente della Regione Campania, che Franceschini e Veltroni (inutilmente) avevano più volte cercato di far dimettere ai tempi delle politiche.

Di sicuro, ancora il 12 marzo lo stesso Bassolino confidava nella possibilità di scendere in campo: «Mi pare che se il centrodestra mette in campo la prima fila, lo stesso dovremmo fare noi». Appunto. Adesso invece, in questo vuoto apparentemente virtuoso, invece del corpo del nuovo Pd emerge una telaio d’epoca. Un classe dirigente rodata, certo. Ma forse per le Europee del 1984.

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