Lee Miller, le vite di una musa

Era stata il volto preferito di Vogue, era stata la ninfa egeria della Parigi culturale fra le due guerre, musa di Man Ray e di Jean Cocteau, era stata la fotografa di guerra per eccellenza, la prima a entrare in un campo di sterminio nazista, l’unica a farsi ritrarre nella vasca da bagno di Hitler. E il figlio Antony la racconta

Lee Miller, le vite di una musa

Quando Antony Penrose si decise a scrivere su sua madre, si accorse di avere a che fare con una perfetta sconosciuta. Sposatasi con il critico d’arte Roland Penrose, Lee Miller era rimasta incinta di Antony, Tony per genitori e amici di famiglia, nel 1947: aveva allora quarant’anni, si sentiva vecchia, non si amava e non trovava più piacere ad amare. Fra l’infanzia e l’adolescenza, Tony si ritrovò una madre che lo angariava, dedita alla bottiglia più che al biberon e ai giochi infantili, sfasciata nel corpo, trasandata nel vestire, rovinata nel volto da un lifting mal riuscito, collerica e infelice anche nel rapporto con il marito.

Eppure, rimaneva una donna circondata da una corte di amici illustri: da Max Ernst a Picasso, da Man Ray a Duchamp, da Henry Moore a John Huston, a Prévert, Eluard, Leiris, il gotha, insomma, della cultura dell’epoca. Da dove venissero, e come li avesse conosciuti, crescendo Tony non riuscì mai a saperlo, quasi fossero i resti di un’altra vita in cui non c’era posto per la sua…

Nel tempo, il divario si allargò, tramutandosi in aperta ostilità e quando, negli anni Settanta, dopo essersene andato di casa, Tony provò a riallacciare i rapporti, era ormai troppo tardi: malata di tumore, Lee morì di lì a poco, con il figlio riconciliato al capezzale di una madre alla fine ritrovata ma egualmente estranea. Frugando nella casa di campagna di Farley Farm, nel sud-est dell’Inghilterra, il figlio si ritrovò in una confusione di manoscritti, lettere e carte varie, negativi e stampe originali che ora portavano a New York e ora a Parigi, ora in Europa e ora in Medio Oriente: raccontavano di luoghi, ma anche di persone, di viaggi, ma anche di guerre, di arte, ma anche di amori.

Con sorpresa, con gioia malinconica, Antony si rese conto che quella madre aveva vissuto più vite: era stata il volto preferito di Vogue, era stata la ninfa egeria della Parigi culturale fra le due guerre, musa di Man Ray e di Jean Cocteau, era stata la fotografa di guerra per eccellenza, la prima a entrare in un campo di sterminio nazista, l’unica a farsi ritrarre nella vasca da bagno di Hitler…

Le vite di Lee Miller (Archinto editore, 214 pagine, 35 euro) è il risultato di questa ricerca filiale e a suo modo filologica, arricchita di 150 fotografie in duotone – tra cui alcuni ritratti firmati dai più grandi fotografi - di chi, come ha scritto il fotografo David Sherman, “ha incarnato quant’altre mai la nuova donna della metà del Novecento”. Un libro che esce in Italia solo oggi, trent’anni dopo l’edizione inglese, sull’onda delle grandi esposizioni che per il centenario della nascita il Victoria&Albert Museum di Londra e il Jeu de Paume di Parigi le hanno dedicato dal 2007 al 2009.

Più vite in una sola vita è un insieme fatto di tante e forse troppe cose, e del resto fu proprio Lee a descriversi come “un puzzle imbevuto d’acqua, tanti pezzi sparsi che non si accordano né per forma né per motivi”. Un puzzle per molti versi surrealista, che procede per scarti e per assemblaggi, per negazioni e per appropriazioni indebite. Lee sarà modella di fama internazionale, fotografa di moda, ma anche d’arte e poi di guerra, e in ultimo una distinta signora dell’upper class inglese, esperta in banchetti, chef da cordon bleu, madre di famiglia poco esemplare.

Della grande stagione surrealista della Parigi degli anni Venti e Trenta, Lee fu una figura carismatica e inquietante. Il sodalizio con Man Ray esaltò l’arte fotografica di quest’ultimo, ma rivelò anche alla musa-amante-alunna un campo d’azione di cui si impadronì con feroce determinazione. Dal suo pigmalione la Miller imparò tutto e però vi aggiunse un tocco di elegante distanza, di fredda ironia che fu la sua cifra estetica. Sotto questo aspetto, le fotografie della vita quotidiana a Londra durante i bombardamenti rimangono esemplari. Una sorta di humour noir che nella foto delle due ragazze con le maschere anti-incendio ha una beffarda conferma. Un puzzle surrealista è di per sé un enigma e nel miscuglio di femminilità e mascolinità, tensione e rilassatezza, attivismo e noia della sua esistenza c’è materiale sufficiente non per completarlo, ma per ancor più allargarlo.

Come dirà Eileen Agar, un’altra esponente della consorteria surrealista dell’epoca, “Lee era una donna notevole, l’opposto di una donna sentimentale, e a volte una donna impietosa”.

Un paio di matrimoni, molti amanti, molto, troppo alcol, molte, troppe sigarette, uno shock bellico da cui in fondo non si riprese mai (primo foto-reporter a entrare a Dachau), lei che nella guerra aveva visto un modo per fuggire alla noia della pace, una vita divisa in più tempi, con i successivi sempre occupati a cancellare ogni ricordo di quelli precedenti, il destino di Lee Miller è all’insegna del proprio annientamento, una figura femminile che scivola sull’acqua, gli occhi trasformati in maschera mortuaria, come Cocteau l’aveva vista nel suo film Le sang d’un poete. Mai come in quella pellicola lei apparve per quello che era: un angelo sterminatore suo malgrado.

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