I lettori non sapevano chi fosse e probabilmente non l'avevano neanche sentito nominare. Se non ricordo male, Leopoldo Sofisti, fin dalla fondazione caporedattore, non ha mai scritto una riga sul Giornale. Eppure in un'ideale scala gerarchica era il numero tre, dopo Montanelli e Biazzi Vergani, il Richelieu della situazione. Se Biazzi era il gran tessitore politico, Sofisti era l'indispensabile uomo macchina. Con la supervisione degli altri due big, la prima pagina l'ha inventata, costruita, fatta, rifatta e se era il caso anche ribaltata lui per anni, giorno dopo giorno, prima nel suo ufficio, diciamo dalle undici del mattino alle otto della sera, poi in tipografia, fino alla chiusura della prima edizione, ore undici, più o meno. Ogni titolo passava al suo inesorabile vaglio, anche quelli di sport, unico argomento su cui ammetteva una sterminata ignoranza. Statura media, tendente al basso, capelli candidi, una faccia che, se era in buona, ispirava immediata simpatia, aveva poco più di cinquant'anni quando Montanelli lo portò con sé dal Corrierone. Vederlo all'opera tra i banconi della tipografia era uno spettacolo. Saltabeccava da un telaio all'altro, scrutando ora le pagine ora l'orologio. I ritardi lo indispettivano più di un titolo sbagliato, il rischio di perdere i treni lo faceva diventare paonazzo, ma per una strana malattia della pelle il suo volto era regolarmente a chiazze bianche rosse.
Poi quando il Giornale finalmente stava per chiudere, poteva intonare, in sordina, ma non troppo, l'amata La vie en rose, edizione goliardica. E dodici ore dopo era pronto a ricominciare.Massimo Bertarelli - 22 aprile 2014
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