«Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze», scriveva da Auschwitz con disarmante lucidità la letterata olandese Etty Hillesum, che dal campo di sterminio nazista non avrebbe mai fatto ritorno. A volte sarebbe sufficiente rileggere la storia, con gli occhi ma soprattutto con il cuore, per non ricadere puntualmente negli errori del passato. Ma se la politica internazionale, oggi più che mai, resta cieca davanti agli orrori, spetta ancora una volta agli artisti far vibrare le corde della speranza. Come quella dei bambini ebrei del ghetto di Terezin a Praga - struttura di internamento e deportazione utilizzata dalle forze tedesche durante la seconda guerra mondiale a Praga - che sognavano invano di tornare a casa, e quella casa la rappresentavano nei loro commoventi disegni, oggi custoditi nella sinagoga museo di Pinkas a Praga.
Quei disegni sconosciuti ai più, prodotti in una finta casa-vacanza sotto la guida dell’arte-terapeuta Friedl Dicker Brandeis, sono stati immortalati dalla fotoartista Anna Maria Tulli, che li ha messi in mostra nella sue «scatole della memoria» che sono stati recentemente presentati alla galleria Big Santa Marta di Milano guidata da Massimo Ciaccio. Quei disegni realizzati dai piccoli ebrei cecoslovacchi che a casa non avrebbero mai più fatto ritorno (tranne qualche rara eccezione), sono oggi il tema di opere suggestive che aprono lo sguardo ad una nuova narrazione in dialogo con le immagini di sculture contemporanee fotografate dalla Tulli durante il suo viaggio a Praga nell’autunno del 2018.
«Mi sono imbattuta in quei disegni quasi per caso, visitando la sinagoga di Pinkas e attirata da un muro sul quale era allineata, in ordine perfetto e in bello stile, una lunghissima sequenza di nomi e numeri. Era l’elenco delle 77.297 vittime della Shoah cecoslovacca. Su un’altra parete c’erano i disegni dei bambini ospitati nel centro di Terezin, prossimi ignari deportati, ludicamente intrattenuti per ingannare le ispezioni della Croce rossa internazionale. Ho voluto fotografare quelle immagini struggenti, ancora senza immaginare che ne avrei realizzato delle opere».
Le dodici «Scatole della memoria» in mostra in via Santa Marta sono il racconto di sogni spezzati, eppure resi vivi dalla catarsi dell’incontro con l’arte del presente, generatrice di un messaggio arcaico e quasi mitico. Come mitica appare l’opera che apre la mostra: “Help“, la fotografia la fotografia di una grande sfera in ferro con tante feritoie da cui escono mani imploranti. «Ho trovato quella scultura alle ex Officine Reggiane - racconta Tulli - quel ferro e quelle feritoie mi hanno immediatamente ricordato gli spiragli attraverso i quali deportati cercavano di lanciare messaggi all’esterno».
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