Il dolore e la salvezza nel Natale di Manzoni

Due testi dello scrittore rendono l’esperienza di una fede viva. Come un «pargolo» da amare

Il dolore e la salvezza nel Natale di Manzoni

«Dottrinale». Così Wikipedia, la nostra bibbia quotidiana e ormai indispensabile, definisce il contenuto degli Inni Sacri di Alessandro Manzoni - con l’eccezione, ampiamente codificata, della Pentecoste. La sentenza è anonima, come è giusto: Wikipedia non dà giudizi, riporta solo pensieri sedimentati. Eppure, ad eccezione di Eliot (che con Manzoni ha più di un punto di contatto) la letteratura mondiale non conosce altri catechismi personali così potenti. Molto si è scritto, e molto si scriverà, sul cattolicesimo del Manzoni, chi lo vede come fervido credente, chi come un ateo rivestito di una specie di cristianesimo circostanziale. Ma l’opera del Gran Lombardo (quello vero, lui) non ci parla tanto della sua fede personale, ci parla piuttosto di un uomo difficile, esacerbato, perturbato, addolorato, che nel marasma di una vita trova nel contenuto della fede cristiana il solo punto di confronto all’altezza del suo dramma. Nella tragedia umana, Gesù Cristo è il solo compagno possibile.

Il cristianesimo, dunque, sì: non come religione ma come unico termine di un dialogo abissale, unico interlocutore davanti al quale mettere in gioco tutto, speranza e disperazione, invocazione e bestemmia. E Manzoni è troppo intelligente per modellarsi un cristianesimo a propria misura: se confronto ha da essere, sia con la fede così come la dottrina cristiana l’ha depositata, nei secoli.

Manzoni dedicò al Natale due testi che si dovrebbero leggere insieme. Il primo è il Natale che apre gli Inni Sacri, il secondo scritto una ventina d’anni dopo è un celebre frammento, Il Natale del 1833 (si possono leggere nel volume, pubblicato da Interlinea, Il Natale del 1833 e altri scritti, pagg. 104, euro 12).

La lettura del Natale, se fatta senza troppe difese ideologiche, non può non lasciare in noi una piccola parte del trauma che l’ha prodotto. Il grande masso che, staccatosi dalla cima del monte, precipita nel fondovalle e lì rimane per sempre, produce un boato la cui eco permane, non eliminabile, come un tremito in tutto il prosieguo dell’inno, attraversando zone di apparente aridità (i versi cioè più «dottrinali») fino all’enigmatico finale.

Quel masso ha troppo a che fare con la vita per poter essere ridotto a dottrina. La sua immagine disegna paesaggi desolati e paurosi, non ancora attraversati da una via miracolosa, come quella che il Diacono Martino troverà dopo essersi perduto, nell’Adelchi. La desolazione qui è totale, e a dispetto del riferimento alla colpa di Adamo, l’atmosfera è differente. Nell’Eden il peccato e la cacciata avvengono dentro una compagnia (Adamo, Eva, Dio, il serpente). Il giudizio di Dio è terribile, ma Dio è anche il creatore, Colui che ha amato Adamo tessendone la trama «nelle profondità della Terra» (Ps. 138, v. 15), e dunque è già presente anche la sua misericordia - ta« le è Dio nella sua essenza - e perciò il suo è anche un giudizio pieno di dolore. La cacciata è insomma una scena di dolore partecipato.

Nella caduta del masso, viceversa, non avvertiamo alcuna compagnia, alcuna eco di dolore: il suo schianto è sordo e solitario, e più che la Bibbia ricorda le desolate parole di Anassimandro, che nel primo frammento di tutta la Filosofia condanna la nascita del mondo (e di noi) come un atto di empietà contro l’Origine (apeiron) da cui si è voluto staccare, tanto che pagherà con la morte il fio della sua scelta disgraziata.

Seguono poi parole disperate: «Qual mai, tra i nati all’odio (così definisce il genere umano, «nati all’odio», e non c’è dubbio che Manzoni conoscesse bene il senso di queste parole)/ qual era mai persona/ che al Santo inaccessibile/ potesse dir: perdona? » Può un essere dotato di intelligenza e libertà chiedere a Dio (il Santo inaccessibile) il perdono? Non sarebbe un atto di pura demenza? Come potrebbe un uomo domandare sinceramente perdono di atti che rifarà ancora mille volte?

Difficile ridurre a «dottrina» parole così amare, così piene di una solitudine, di un dolore così cieco. Ancora una volta: chi ci salverà dalla colpa di essere nati? Chi ci strapperà dall’inferno vincitore?

Un «ecco» stupefatto segue, senza alcuna possibile mediazione. Intere biblioteche si collocano a questo punto: Manzoni le cancella. Alla condanna dell’essere non c’è salvezza, a meno di un atto tanto desiderato, tanto implorato quanto impossibile e inimmaginabile: Ecco ci è nato un Pargolo,/ ci fu largito un Figlio.

E aggiunge: le forze avverse tremano. Non pensiamo all’inferno, a Satana in ambasce, al regno del Male in pericolo come in un film Marvel, a una specie di Gotham City. Le forze avverse sono quelle legate (lo capì bene Michelstaedter) alla forza di gravità, alla triste necessità per cui il masso precipitato vuole restarsene in fondo alla valle.

Un tremore, dunque, delle nostre viscere: una risposta imprevedibile alla caduta ma, al tempo stesso, affine ad essa, come l’incontro fra due nemici mortali che un tempo furono fratelli. Si passa così di sgomento in sgomento, ed eccone infatti uno nuovo: quel Bambino appena nato porge una mano all’uomo, che si ravviva, e sorge/ oltre l’antico onor. Il masso non viene ricollocato in cima al monte, ma lo supera.

Segue un’immagine inusuale: quella di una fonte, di un fiume che sgorga dalle magioni eteree (...) e nel borron de’ triboli/ vivida si distende. Il dono inimmaginabile del Natale invade, come un’inondazione, il precipizio dei nostri guai, delle nostre magagne. Questa invasione però non sarebbe comprensibile senza il sostegno di un’esperienza viva. Cosa sa, Manzoni, di quella misteriosa fonte, quando e come le sue ferite immedicabili hanno goduto di un conforto così definitivo da meritare un’ode, un inno, un tremito non più solo di dolore ma di esultanza?

E, come a sottolineare questo riprodursi elettrico, agglutinante di tremore in tremore, ecco che la discesa di quel fiume si trasforma poco oltre - quando il poeta entra nella cronaca di quella lontana notte - in una voce, in un canto che fluisce dall’alto, Gloria in excelsis, canto d’angeli che richiama i pastori, questo sì, ma che poi scompare: e lento/ il suon sacrato ascese/ finché più nulla intese/ la compagnia fedel.

Dio, l’eterno, passa dentro gli istanti del tempo, non si ferma, occorre vigilare. Spenta ogni musica, i pastori non si fermano, delusi. Senza indugiar, cercarono/ l’albergo poveretto,/que’ fortunati.

Ecco il punto. Tutto quello che occorre è un cuore sveglio, che catturi la fortuna quando arriva. Non sono i canti angelici a condurre i pastori alla grotta, ma la disposizione di quei fortunati a trattenere quei canti nella memoria: come è di tanti popoli antichi, che ai canti affidarono la loro sapienza, l’amore dei padri, la conoscenza degli astri, perfino le ricette di cucina.

L’amore di Enrichetta fu il conforto, la fiamma concreta, che permise a questo uomo accidentato di riconoscere e trattenere nei giorni oscuri (nel 1833) quella fonte scesa dall’alto, che rinnova tutto («stillano mèle i tronchi;/ dove copriano i bronchi (gli sterpi),/ ivi germoglia il fior»). Il Natale si richiude nella dottrina, e dunque nell’inaccessibilità, senza questo passaggio delicatissimo, tutto sottinteso. In questo strano giorno nessun angelo scende con la spada fiammeggiante: Natale è un «pargolo», una persona concreta da poter accarezzare, baciare, amare. È un figlio, è la donna amata, è chi ci annuncia - da fuori - la fine dell’inferno.

Se trovo sciocca la riduzione del Natale a una festa commerciale, trovo però ambigua la demonizzazione di tutto questo in nome di una non ben definita purezza/austerità. L’Eterno nelle nostre vite è un soffio, un bisbiglio nella notte. Esso vive nelle preghiere di chi prega, nel dolore di chi soffre, di chi è in guerra, di chi non ha dove dormire.

Ma non è detto che non viva - quasi invisibile ma presente - anche nei piccoli regali che ci scambiamo, in questa strana abitudine di cui magari abbiamo scordato l’origine ma che ancora, qualche volta, ci riunisce intorno a una tavola, felici quantomeno di vederci, di sorriderci «a gratis», solo perché ci siamo, senza l’incombere di qualche interesse particolare.

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