Ilaria Iacoviello, i ragazzi "interrotti" dalla pandemia, raccontati nel suo primo romanzo

Due settimane, forse un anno è il primo romanzo della giornalista. Racconta la storia di un adolescente durante la pandemia, con i suoi sogni le ambizioni e la scoperta di un percorso, molto più profondo, rispetto agli stereotipi con cui viene raccontata la sua generazione

 Ilaria Iacoviello, i ragazzi "interrotti" dalla pandemia, raccontati nel suo primo romanzo

Ilaria Iacoviello è uno dei volti più amati di Sky Tg24, una giornalista impegnata nel sociale, che da anni si occupa di giovani. Da questa lunga esperienza era nato, nel periodo della pandemia, lo speciale Ragazzi Interrotti, che aveva raccolto le testimonianze di alcuni ragazzi durante il periodo di isolamento da Covid. Da quegli incontri, che l'hanno profondamente colpita, l'idea di dare vita ad un romanzo - bellissimo tra l'altro - Due settimane, forse un anno (Giunti). Attraverso la storia di Matteo, Ilaria racconta quella di tantissimi giovani, con cui ha parlato e che le hanno mostrato una visione generazionale molto diversa dagli stereotipi con cui vengono spesso descritti. Con grande desiderio di conoscenza e, come spiega lei, con umiltà, ha dato vita ad un romanzo appassionante non solo per i ragazzi, ma anche per i genitori. Con penna leggera ha saputto indagare nella loro vita, raccontando un mondo unico, come unici sono i ragazzi, e pieno di inaspettate sorprese.

Perché ha deciso di scrivere un romanzo, e non magari raccogliere testimonianze come in “Ragazzi Interrotti”, gli speciali che ha curato su Sky Tg24?

“Sarebbe stato forse più semplice mettere su carta i racconti 'one tu one', ma mi sembrava sostanzialmente di ripetere e ripercorrere le storie andate in onda su Sky. Volevo invece raccontarli con una modalità diversa, attraverso la vita di Matteo che riassume le caratteristiche dei tanti ragazzi che ho incontrato in questi ultimi anni. Dare vita a lui e ai suoi amici, alle prese con le difficoltà vissute durante la pandiemia, pensavo potesse essere un’idea più accattivante su cui potersi rispecchiare".

Quanto è stato difficile far parlare i ragazzi?

“In realtà loro hanno molta voglia di far sentire la loro voce in maniera sincera e senza pregiudizi. Se ci si poni davanti a loro con altri fini, se ne rendono subito conto. Per questo detestano la politica, che li ascolta solo quando c’è la necessità di avere un voto. Mi sono seduta davanti a loro dicendo: 'Io non vi giudico'. Questa è stata la cosa vincente degli speciali di 'Ragazzi interrotti'; conoscerli e farmi conoscere senza giudizi. Farlo è stato un lavoro certosino e devo ringraziare anche 'ScuolaZoo', il sito che fornisce sostegno agli studenti, per il grande aiuto che mi hanno dato. Senza la loro collaborazione, non avremmo mai ottenuto quei risultati”.

Sono anni che lei si rapporta con i giovani, ma la pandemia è stato sicuramente qualcosa di diverso per tutti. Cosa l’ha stupita, sia in positivo che negativo, del modo in cui l’hanno affrontata i ragazzi che ha incontrato?

“Nelle ultime settimane ho girato molto nelle scuole per promuovere “Due settimane, forse un anno”, e ho incontrato ragazzi di tante città, da Palermo a Bologna, di estrazione e ambiti sociali diversi. Con loro si inizia sempre a parlare della pandemia, ma si arriva poi a raccontare della loro vita, che non è solo stare sempre al cellulare o seguire gli influencer. In ogni ragazzo che ho incontrato c’è un mondo. Può sembrare una frase fatta, ma non è così tanto fatta se poi non si mette in pratica".

È molto interessante il fatto che lei abbia in qualche modo sia difeso, che messo sotto una luce diversa questa generazione.

“Spesso non ci rendiamo conto che siamo noi adulti a non essere riusciti a dare l’esempio, se siamo noi i primi a stare sempre al telefono come possiamo stupirci che lo facciano sempre anche loro? Mi ha colpito molto una ragazza che mi ha detto che spesso loro imparano molto di più dagli influencer, rispetto ai professori che cambiano ogni anno. Banalmente è un po’ come se quelli che dovrebbero aiutarli a crescere, tradissero invece la loro fiducia. Qui entra in gioco anche il grande ruolo della scuola, oltre che delle famiglia che dovrebbe diventare un punto di riferimento. Si dovrebbe cercare di fare più squadra con loro”.

Lei lo racconta benissimo nel romanzo, scavando molto più a fondo della superfice in cui vengono visti e inquadrati dal mondo.

“Quello che ho voluto dire nel mio romanzo, è che anche in una persona che è normale e senza grandi peculiarità come Matteo Carrieri il protagonista del libro, riserva invece grandi sorprese e capacità di crescita e riscatto. All’inizio è solo il trait d’union, per Luca e Federico, ragazzi molto diversi tra loro, che diventano amici grazie a lui. Però quando finisce la pandemia e i due amici litigano, Matteo si rende conto, anche grazie dell’aiuto della sua fidanzatina Lavinia, che lui è molto di più del solo collante tra due amici. Questo per dire che anche nella realtà identifichiamo spesso questa generazione per stereotipi, ma non è così”.

Due settimane forse un anno_banner

I protagonisti del libro somigliano molto a quelli che ha incontrato dal vivo?

“Sì perché si rivelano, come i protagonisti del libro diversi dai preconcetti in cuii li inquadra la società. Non è vero ad esempio che i ragazzi vogliono per forza lasciare il nostro Paese. In Sicilia quelli che ho incontrato, sono incazzati neri per il fatto che la loro regione vada a scatafascio, e cercano come possono di cambiare le cose. Al liceo Umberto primo di Palermo ad esempio si sono organizzati in un'associazione che si occupa di passare i libri di scuola da una classe all'altra, a chi ne ha più bisogno. Oppure allo Zen, c’è questa associazione che ha costruito una biblioteca e fare in modo che i ragazzi possano stare lì, leggere studiare ed evitare in questo modo di andare delinquere. Non si può negare che c’è una situazione di degrado e abbandono scolastico, però, fin quanto noi continueremo a scrivere sui giornali e a dire in televisione che i ragazzi sono così, si creerà un pregiudizio. Invece nella realà sono molto meglio. Dobbiamo smetterla di dipingerli in questo modo solo perché la cosa fa notizia, e iniziare ad ascoltarli veramente”.

Cosa ha lasciato a livello psicologico il covid nei ragazzi?

“Quelli che ho incontrato a Palermo mi hanno raccontato che quello che è successo, per loro è stato quasi un buco nero, che non vogliamo più ricordare. Perché è proprio come fossero stati interrotti. Riescono anche ad apprezzarne alcuni lati positivi come qullo del piacere di poter comunicare nuovamente tra loro. Se prima magari avevano come compagno di banco qualcuno che poteva stargli antipatico, ora la felicità nasce solo dal fatto di poterlo avere vicino. Alcuni di loro raccontano che si sono ritrovati a fare da sostegno ai propri genitori che sono andati in crisi. Una cosa che mi ha colpito particolarmente è stato il fatto che ora non hanno più paura di chiedere aiuto. Anche problemi come bulimia o anoressia, non sono più per loro una vergogna, come spesso succede per gli adulti. Mentre prima era tutto un po’ delegato alla famiglia, c'è stata una sorta di autoguarigione che li ha fatti crescere”.

Dal suo libro cosa possono trarre i ragazzi

"Ho voluto farlo come una sorta di omaggio, perché così come il libro finisce con i diciotto anni del protagonista che è pronto a prendersi il mondo, anche i ragazzi lo sono. Hanno bisogno di concretezza, di qualcuno che investa nel loro futuro con aule non più fatiscenti o cattedre vacanti che li destabilizza. Tutte le diatribe di cui spesso ci occupiamo noi giornalisti, se chiamare presidente o presidentessa, per loro sono inutili. Ho avuto modo di leggere un lavoro molto interessante sui giovani del pd, che prendo come esempio per spiegare il concetto. Loro pensano e dicono le cose concrete che gli elettori volevano sentirsi dire durante le elezioni, cosa che invece non è successa. Bisogna puntare su questi giovani, di qualsiasi fazione politica, non sui matusalemme che non rappresentano minimamente la gente.

Bisogna imparare ad ascoltare e a conoscere le esigenze dei ragazzi per aiutarli, ma questo agli adulti a vole costa troppo fatica. È più semplice definirli come un generazione senza ideali, che non ha voglia di fare niente".

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