Il gentleman, per come venne a configurarsi nell’epoca d’oro dell’impero britannico, fu più un effetto che una causa di quest’ultimo. A lungo i numi tutelari dell’Inghilterra erano stati due pirati, Francis Drake e Henry Morgan, quello del «sacco di Panama», elevati al rango di baronetti in virtù dei servizi militar-mercantili da loro resi alla Corona inglese. Per numi tutelari si intende quelli che danno il tratto distintivo alle nazioni e via via che le conquiste oltre-Manica aumentavano divenne evidente che il prestigio esterno necessitava di un codice di comportamento interno che lo giustificasse e al tempo stesso lo nobilitasse. All’estero non andavano i figli prediletti di Britannia, ma i più scapestrati, i meno fortunati e i meno docili, di certo i più avventurosi: le buone maniere non erano il loro forte, ma una società di razziatori non ha vita lunga né la si prende ad esempio: può essere temuta, ma non suscita ammirazione.
Alla fine del Seicento, nel volgere lo sguardo sul Vecchio continente, Londra si accorse che l’Europa non era soltanto un campo di battaglia in cui esercitare le proprie virtù guerriere, ma qualcosa di più ampio che aveva a che fare con lo stile di vita, l’emulazione, il tono, in breve una civiltà. Sotto questo punto di vista, la Francia regnava incontrastata, rispetto a una Spagna in parabola discendente, un’Italia che si declinava al plurale, le Italie, splendida d’arte, ma militarmente e politicamente succube dei suoi più potenti vicini, un nord Europa troppo popolato e frastagliato: l’Austria, i Paesi Bassi, i principati tedeschi...
L’etichetta francese segnava il tempo, per un orecchio inglese ancora più fastidioso da udire perché contemplava l’assolutismo monarchico come forma di governo, il cattolicesimo come religione, l’elemento femminile come ingrediente base di quella «società della conversazione» del tutto sconveniente per chi alle donne concedeva il silent speaking, il silenzio come miglior modo per esprimersi. Come scrive Francesca Sgorbati Bosi nel suo Nobili contraddizioni (Sellerio, pagg. 375, euro 20), fu allora che l’aristocrazia inglese «costruì un proprio modello di comportamento che valorizzasse le naturali virtù britanniche», un nuovo galateo: «la politeness, un insieme di regole concepito per plasmare la classe dirigente inglese, per formare i gentlemen e le ladies che avrebbero guidato l’Inghilterra verso il compimento di un destino glorioso che la Storia aveva promesso loro».
Di galatei veri e propri l’Europa ne aveva sino ad allora sperimentati un paio, entrambi di matrice italiana, il che è di per sé significativo. Sia Il Cortegiano, di Baldassarre Castiglione, sia quello che aveva tenuto a battesimo il genere, ovvero il manuale di monsignor Della Casa, erano stati il frutto di una necessità fattasi virtù.
Non avendo una storia politica unitaria su cui poggiarsi, i loro autori avevano esaltato il cosmopolitismo delle arti e delle corti come succedaneo di una coscienza nazionale latitante: avevano dato dignità a un comune sentire civile lì dove non potevano esercitare un predominio di carattere militare: non avendo un esercito per imporsi, avevano messo in campo la cavalleria della cultura.
I francesi lo avevano poi fatto proprio, la politesse, sublimandola da un lato e rendendola funzionale al loro ruolo di nazione grande perché colta, ma la più colta in virtù dell’essere la più grande, quella che imponeva la propria cultura. Gli inglesi, scrive Sgorbati Bosi, elaborarono il loro «nuovo galateo», ovvero un complesso sistema di regole comportamentali, «con scopi precisi: differenziarsi in tutto dai francesi (gli eterni nemici), liberarsi da ogni loro influenza e soprattutto forgiare una nazione di eroi capaci di conquistare il mondo».
Il sottotitolo di Nobili contraddizioni è «Vizi e virtù dell’aristocrazia inglese del Settecento», e sotto questo aspetto il libro è pieno di paradossi.
Siamo abituati a considerare Oxford e Cambridge culle del sapere, ma questa è una conquista della seconda metà dell’Ottocento. Uno storico come Gibbon, descriverà i suoi 14 mesi al Magdalen College come «i più pigri e inutili di tutta la mia vita». In realtà, osserva la Sgorbati Bosi, «non c’erano piani di studio né metodi per valutare il rendimento degli studenti e l’assegnazione dei diplomi, ci si poteva iscrivere quando capitava, i corsi erano molto flessibili, gli esami pressoché inesistenti, le assenze scusate». Anche l’educazione nelle public schools, i collegi privati tipo Eton, per intenderci, lasciavano a desiderare, un concentrato di punizioni corporali dei maestri sugli allievi e di sopraffazione fra studenti «che ricreavano sui piccoli e sui più deboli lo stesso sistema oppressivo e gli stessi meccanismi di dominio e sudditanza su cui si basava la società dell’epoca». La prepotenza come scuola di vita, insomma, la violenza come metodo pedagogico. Nel Novecento, un artista iconoclasta, Wyndham Lewis, ne coglierà «un obiettivo militare o amministrativo» come giustificazione logica, «la castrazione dell’immaginazione» come elemento preparatorio...
Anche il cosiddetto Grand Tour, visto nell’orbita settecentesca, ha un sapore particolare. Alla base c’era l’idea che il giovane gentleman che lo intraprendeva sarebbe tornato «più maturo, più robusto, più polite, più cosmopolita e libero dai pregiudizi e dalle idee ristrette che si nutrono quando non ci si muove dal proprio Paese».
Un rito di passaggio, insomma, nonché una prova di coraggio, perché non esente da pericoli: banditismo, clima insalubre, cibo cattivo, malattie... In realtà, il sentimento più forte a imporsi era proprio l’avversione per tutto ciò che era straniero. È a questo sentimento che nelle sue Letters from Italy, John Boyle, quinto conte di York, attribuisce «quella timidezza, quell’ostinata, silenziosa, scortese riservatezza che mostriamo sia tra noi che al resto del mondo. Quel sarcasmo, quel sarcasmo superbo, vanitoso, codardo che supplisce alla mancanza di spirito e svela l’abbondanza di malignità, è interamente e vergognosamente nostro. Quindi, se troviamo difetti agli altri, quanti difetti possono gli altri trovare in noi?». È una domanda, chiosa Sgorbati Bosi, «che però pochissimi si posero».
Nelle Lettere al figlio di Lord Chesterfield, uno dei capolavori epistolari de Settecento, il grido di dolore e di allarme verso l’incapacità inglese di aprirsi verso l’esterno è costante. Fuori dalla madrepatria, il gentleman inglese cerca e frequenta solo i suoi connazionali, parla solo con loro, non conosce una parola della lingua del Paese che visita, e però non fa che criticarlo, si lamenta di tutto e di tutti...
Il Settecento è anche l’epoca dei club, a maggior ragione in una società maschile dove la conversazione femminile, sia pure sotto forma, lo abbiamo visto, di eloquente silenzio, non veniva considerata come un piacere innocente: «Coscientemente o meno, i gentlemen cercavano comunque di piacere alle dame e costoro, anche se silenziose, potevano soggiogarli con il loro potere seduttivo, indebolendo manco a dirlo - la loro virilità». Il problema era che se le donne «non erano in grado di sostenere un livello di conversazione interessante per i gentlemen, a che servivano?».
L’ideale, insomma, era «conversare esclusivamente tra maschi, per poter finalmente parlare di ogni argomento, senza obblighi di galanteria e senza rischi per la propria virilità». Pub, caffè, taverne furono a lungo i luoghi deputati, ma il troppo elevato tasso alcolico minacciava di renderli infrequentabili per il venir meno di ogni freno inibitorio. I club, con le loro regole, i loro codici, i loro criteri selettivi finirono per essere la parte femminile di un mondo maschile: obbligavano a rispettare il decoro, a mantenere l’autocontrollo, a mostrare cortesia e riguardo verso i soci... In tal modo resero «totalmente inutile la presenza femminile che, tradizionalmente, era stata sempre ritenuta stimolo e garanzia del rispetto delle buone maniere da parte degli uomini».
Nel secolo in cui in Europa il ruolo delle donne cresceva per importanza e autorevolezza, gli inglesi, osserva la Sgorbati Bosi, «riuscirono con successo nel processo inverso, rendendole mute anche in salotto». Quando, ancora due secoli dopo, Virginia Woolf reclamerà «una stanza tutta per sé», sapeva di che cosa parlava...
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