Quel segreto nascosto dietro il Santo Graal

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto del saggio introduttivo del professore Franco Cardini a La cerca del Santo Graal (Cinabro)

Quel segreto nascosto dietro il Santo Graal

Una vasta radura, un castello assediato, tende di seta di vari colori. Due schiere di cavalieri si affrontano, sembrano del tutto uguali tra loro, salvo per il fatto che da una parte indossano armature nere e dall’altra bianche.

È come una partita a scacchi: del resto, sappiamo tutti che la scacchiera del gioco più bello del mondo rappresenta proprio un campo di battaglia.

Il prode Lancillotto giunge per caso nel luogo della battaglia o, se preferite, del torneo. Guidato dal suo istinto, prende le parti dei cavalieri neri poiché gli sembra che essi siano in difficoltà e sul punto di cedere. Combatte con valore, ma deve soccombere e viene fatto prigioniero. Più tardi, una misteriosa figura mistica gli spiegherà che il combattimento cui aveva assistito era “la Ricerca del Santo Graal”, che i cavalieri bianchi erano “la cavalleria celeste” e i neri “la cavalleria terrena”: il prode eroe, difatti, scegliendo da che parte stare, si era accostato istintivamente ai neri, alla cavalleria mondana e peccatrice e ciò perché, amante della regina Ginevra consorte del suo signore Artù, egli si trovava in quel momento in peccato mortale.

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Al Graal compete un paradossale privilegio: è un proteico “oggetto misterioso” dalle molteplici, infinite metamorfosi. Eppure, ancor oggi è difficile, a livello di idées données, sfuggire all’immagine che si tratti comunque come in primissima istanza – o in definitiva ‒ di un calice eucaristico da porsi in relazione con l’Ultima Cena e il sangue sparso da Gesù sulla croce e nel sacro vaso, appunto, raccolto. Ma i molti cultori dell’argomento tendono a superare e ad accantonare quest’aspetto vulgato e volgare: essi fanno del Graal un oggetto che si presenta in varie forme all’interno di differenti sistemi mitico-religiosi, dotato sempre e comunque di un valore universale; oppure un simbolo di potere e di conoscenza. Soprattutto, un mistero: anzi, il Mistero per eccellenza.

Il Mistero del Graal è eterno ed etereo, diffuso e disciolto nell’Eternità: per questo bisogna cominciare ad affrontarlo: non sul suo terreno diafano e scivoloso, bensì sul nostro, con i piedi ben piantati in terra: date precise, luoghi circoscritti, pesi e misure. Ci sarà ben un prima e un dopo.

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Il verseggiatore che inventò il Graal

Il francese Chrétien de Troyes cominciò a scrivere i suoi romanzi in versi nella prima metà degli anni Sessanta del XII secolo, allorché attorno alla duchessa e regina Eleonora, nipote del trovatore Guglielmo IX d’Aquitania, si andava fondando il nucleo originale di quella che si sarebbe chiamata “cultura cortese”. Tra 1181 e 1190 Chrétien compose un nuovo romanzo, il Perceval, ou le Conte du Graal. Il XII secolo, così permeato di valori e di reminiscenze antiche – lo hanno chiamato Aetas ovidiana e addirittura “Rinascimento” –, non apprezzava le novitates: tanto più poi in un campo come quello delineato dal Perceval, dove si proponeva la vicenda d’una sorta d’iniziazione religioso-cavalleresca incentrata sul mistero del Graal. Ma il termine Graal, che per noi è ormai un nome proprio, ai tempi di Chrétien non lo era affatto; né lo era nei suoi versi, dove si propone non già la storia del Graal quanto piuttosto quella di un graal, sia pur particolare.

La parola graaus (al nominativo; nei complementi, graal) è attestata in lingua d’oïl almeno a partire dal Roman d’Alexandre del 1160-70: ma conosciamo la forma latina corrispondente, gradalis, almeno a partire da un testo documentario catalano del 1010. […]

Ora, Chrétien descrive – sommariamente – il suo graal come un piatto largo e abbastanza capiente e profondo da contenere un grosso pesce, mentre un testo primoduecentesco, la prima “Continuazione anonima” del Perceval, ne tratta come di un recipiente tanto grande e profondo da contenere una testa di cinghiale. Dal canto suo Elinando di Montfroid, nella sua cronaca in latino del primo quarto del Duecento, descrive il Graal come una scutella lata et aliquantulum profunda. Insomma, qualcosa come un grande vassoio o un bacile.

Si è, in altri termini, dinanzi a un oggetto in origine d’uso corrente, magari addirittura umile e quotidiano. Si tende a pensare che etimologicamente esso sia la sintesi di due parole latine, crater (il panciuto vaso vinario) e vas garale (un recipiente atto alla conservazione della salsa latina detta garum: di nuovo qualcosa a che fare con il pesce). Ma qualcuno, appoggiandosi al valore che il termine ha assunto dopo Chrétien come oggetto dispensatore di grazia e di saggezza, ha voluto avvicinarlo alle parole gradale o graduale (in lingua d’oïl graël), termini derivati da gradus (“passo”) e designanti la lettura liturgica che nella messa precede il Vangelo e, in senso più ampio, il libro che raccoglie i canti liturgici: un’ipotesi che appare un po’ forzata. A loro volta alcuni testi del ciclo graalico, del primo Duecento, seguendo il sistema etimologico caro a Isidoro di Siviglia consistente nello spiegare i termini ricorrendo a parole affini o comunque omofone, spiegavano graal con gré, agréer: il Graal è dunque qualcosa che piace, che giova.

L'avventura afilologica e la proposta antropologica

Un’ombra fedele e inquietante segue da oltre un secolo gli studiosi che, con sapienza storica e acribìa filologica, si vanno occupando del Graal. Anzi, diciamo pure che la critica graalica, sotto il profilo scientifico, tradisce la vecchia coppia di aggettivi destinata a Perceval-Parzival-Parsifal: è sovente “folle”, ma è quasi sempre molto meno “pura” di quanto voglia presentarsi. […] Dai testi graalici del XII secolo fino alle indagini, pur tanto differenti tra loro, del Guénon e della Giani Gallino, il carattere archetipico del mito del Graal emerge dunque con chiarezza. Arduo, e forse impossibile, sarebbe tentarne la ricostruzione del tracciato storico: in questo senso, la chiave interpretativa strutturalista ci aiuta più della diffusionista. […]

Il simbolo della coppa appare inestricabilmente legato a quello della lancia, a esso complementare: il risultato è un geroglifico dell’unità cosmica primordiale, al pari del simbolo del Tao; e, a livello antropico, la ricostruzione dell’androgino originario. Quanti hanno veduto nel Graal un’immagine dell’athanor alchemico hanno colto – magari con una profondità della quale non sempre sono stati coscienti – il significato profondo di questo mito di rigenerazione universale, di ricostituzione dell’Unità primordiale.

Torniamo, quindi, ai nostri cavalieri medievali e ai poeti che ne narravano le gesta. I simboli sono, per loro natura, validi a più livelli e restano legittimi anche allorché vengono polimorficamente usati in modo da consentire l’individuazione di più significati, che non si elidono ma al contrario risultano complementari tra loro. Riconduciamoci dunque ai “quattro sensi della Scrittura”, i quattro “livelli” di interpretazione alla base dell’esegesi medievale.

A livello letterale la cerca del Graal è solo una bella avventura cavalleresca; ma a livello allegorico essa è il racconto del processo iniziatico che conduce alla conquista della sapienza, cioè alla liberazione dalla prigione delle apparenze; a livello morale la cerca indica, inoltre, il dovere di uscire da quella prigione; il che chiarisce come, a livello anagogico (spirituale), il Graal può essere quel che il mistico (e alchimista) Raimondo Lullo definisce l’Amato ricercato dall’Amante, il possesso di Dio nelle sue tre dimensioni – trinitarie, appunto – della Potenza del Padre, della Sapienza del Figlio che è il Verbo e dell’Amore dello Spirito Santo.

Il cavaliere del Graal, insomma, cercatore di se stesso – il Graal come aspirazione interiore – è anche un cercatore di Dio: il che qualifica il Graal come esercizio

ascetico, conquista, “guerra santa interiore”. D’altronde, la cerca è infinita: il Graal resta ineffabile e insondabile, e tale ineffabilità, tale insondabilità, permane il nucleo ultimo del suo mistero.

Santo Graal

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