«Caro Colvin, che vita dura, interessante e meravigliosa conduciamo adesso. Il posto dove stiamo è in una profonda spaccatura del monte Vaea, circa seicento piedi sopra il livello del mare, immerso nella foresta, la nemica che ci strangola e che combattiamo con le accette e i dollari. Io mi ero buttato come un pazzo a lavorare all'aperto e alla ne ho dovuto confinarmi in casa, altrimenti la letteratura andava a farsi friggere».
Così in maniera schietta Robert Louis Stevenson (1850 - 1894) apre una sua lettera che reca la seguente specifica di data e luogo: «sulla montagna, Apia, Samoa, lunedì, 2 novembre 1890». La missiva è indirizzata a Sidney Colvin che per anni divenne suo consigliere letterario ed editoriale fin da quando permise al giovane-aspirante scrittore di debuttare sulla rivista Porfolio con la pubblicazione del suo saggio Roads (Strade) che firmò con lo pseudonimo di L.S. Stoneven. Professore di Belle Arti al Trinity College e direttore del Fitzwilliam Museum di Cambridge il colto Sideny Colvin sarà per Stevenson un punto fermo per i suoi contatti con il mondo della letteratura e con il cuore in mano gli dedicherà il suo Viaggio con un asinello attraverso le Cévennes (1878).
L'amico avrà in particolare accesso dopo la sua morte all'incredibile corrispondenza di lettere che Robert Louis Stevenson scrisse dalle isole Samoa. Missive inviate alla madre, alla sua tata, Allison Cunnigham, ma anche a scrittori come Henry James, Arthur Conan Doyle, James Barrie. Fra queste spiccano quelle inviate negli ultimi quattro anni della sua vita proprio allo stesso Colvin che sono state ora raccolte nel prezioso volume Diario degli ultimi anni nei Mari del Sud (Corsiero Editore), tradotto da Michele Buzzi e che propone un'acuta introduzione di Andrea Casoli.
Nella nota introduttiva che appose a Vailima Letters (1895) Colvin spiegò che quelle lettere-diario coprivano con pochi intervalli un periodo che andava dal novembre 1890 all'ottobre 1894. Si tratta di missive che «assunsero una mole così considerevole e contenevano così tanto della sua vita quotidiana e dei suoi pensieri, che a un certo punto a Stevenson venne in mente, come si può leggere in una delle lettere, che una specie di libro avrebbe potuto essere ricavato da esse dopo la sua morte... Stevenson apparteneva alla razza dei narratori e creatori romantici, come Scott e Dumas, non meno che a quella degli egotisti letterari come Montaigne.
La parola potrebbe sembrare fuori luogo, poiché di egocentrismo nel senso di vanità personale o egoismo Stevenson era il più privo di tutti gli uomini; ma era comunque un osservatore sempre attento e interessato dei moti della propria mente. Vedeva se stesso, come vedeva tutto il resto, (per riprendere le parole di Andrew Lang) con la lucidità del genio, e amava porsi in modi confidenziali con i propri lettori; si trattava, però, di confidenza sempre contenuta entro limiti adeguati, e che non permetteva intrusioni indebite nei suoi affari e nei sentimenti privati.
Per questo Colvin ha scelto di selezionare piuttosto che di editare le lettere in suo possesso, per evitare di falsare la voce di Stevenson, consapavole che se ben riproposte in maniera editoriale «queste lettere sono un resoconto vario, perfettamente franco e familiare, degli stati d'animo, dei pensieri e delle azioni quotidiane dello scrittore durante il suo esilio samoano.
Raccontano, con la vivacità e spesso con il linguaggio di un uomo che rimase no all'ultimo un ragazzo nello spirito, i piaceri e i problemi di un piantatore che fonda la sua casa nel suolo vergine di un'isola tropicale; i piaceri di un infermo che, dopo molti anni, comincia a riprendere le abitudini della vita all'aria aperta e dell'esercizio fisico; le fatiche e le soddisfazioni, i fallimenti e i successi, di un artista creativo la cui inventiva era tanto fertile quanto elevati erano i suoi standard e la sua diligenza inflessibile».
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