La lezione di De Benoist. L'"identità" si evolve a dispetto dei nemici

Il filosofo francese fa il punto su un concetto troppo spesso malinteso, se non demonizzato

La lezione di De Benoist. L'"identità" si evolve a dispetto dei nemici
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Nelle società tradizionali la questione dell'identità non si poneva perché saldi erano i punti di riferimento. Entra prepotentemente nel dibattito pubblico con l'illuminismo ed è De Maistre a percepirne i pericoli e a presentire l'inatteso: «Nel corso della mia vita io ho conosciuto francesi, italiani, russi; grazie a Montesquieu so anche che si può essere persiani; ma in quanto all'uomo dichiaro di non averlo mai incontrato: se esiste, esiste senza che io lo sappia».

Nel nostro tempo la questione dell'identità diventa centrale essenzialmente per due motivi. Innanzitutto, per la progressiva perdita di riferimenti normativi, il dissolvimento di limiti e frontiere materiali e immateriali, lo sfilacciamento dei legami sociali. Siamo infatti di fronte a sistemi che sostengono l'universalismo, negano storia e cultura, lavorano per far sparire l'alterità debellando le differenze tra i popoli (che, nel frattempo, si travestono in masse anonime) e plasmare l'uomo astratto, privo di qualunque radice.

In secondo luogo, proprio per l'assenza di questi atavici riferimenti taluni si inventano identità caricaturali, non di rado insensate e folkloristiche, che scadono in simulacri ad uso della propaganda politica.

Per smontare partigianerie a sostegno dell'una o dell'altra tesi, Alain de Benoist in La scomparsa dell'identità (Giubilei Regnani, pagg. 230, euro 23) pone delle chiare premesse di riferimento, anche se sembra giocare su degli ossimori: a) esistono le identità che ci sono state trasmesse, generalmente dalla nascita, e quelle che ci siamo attribuiti; b) l'identità è indispensabile ma talvolta sfuggente perché articolata, munita di molte sfaccettature, e perciò indistinta. Così, se da una parte l'autore difende la nozione d'identità, dall'altra invita a misurarne i limiti e le evoluzioni. L'idea di una identità che per essere vitale debba rappresentarsi come marcata e granitica è ingannatrice ma, pur agendo su un precario equilibrio e quindi per sua natura sfumata, non può essere mai vaga.

L'esempio della cultura europea e della straordinaria diversità che si è prodotta durante la sua storia attraverso differenti forme sociopolitiche, credenze e filosofie, è sotto i nostri occhi: «Quali sono le forme storico-sociali che esprimono meglio l'identità europea? La città-stato è più europea dell'impero? Non ci sono risposte a queste domande. Come chiedersi chi fu più fiammingo (o più olandese) tra Rembrandt o Rubens».

Il dovere è quello di prendere atto del transeunte e di ciò che non cambia, e tener presente che in qualche modo entrambi restano legati.

Si possono infatti sempre decostruire le identità, ma questo non le farà scomparire perché le invarianti non sono scomponibili: «Nell'identità c'è, come sempre, ciò che non cambia e ciò che si trasforma, entrambe sono indissolubilmente legate. L'essere diviene: siamo sempre noi stessi e non siamo mai gli stessi».

Bisogna avere piena consapevolezza che l'identità è «stabilmente indeterminata» ma senza di essa non si è nulla.

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