La lezione del Ponte

Il viadotto di Genova è stato terminato in tempi record, ma solo con una maxi-deroga a tutte le norme in vigore. Perché così non funzionano. E rischiano di far deragliare le speranze di ripresa

La lezione del Ponte

Giugno 2019, posa della prima pietra con la gettata del basamento al pilone numero nove; 28 aprile 2020, aggancio dell'ultima campata e completamento della struttura.

Il ponte di Genova è rinato così. E a rendere possibile i tempi record, poche righe di una norma dell'Unione europea, l'articolo 32 della direttiva sugli appalti pubblici: «la procedura negoziata senza previa pubblicazione può essere utilizzata... nella misura strettamente necessaria... per ragioni di estrema urgenza derivanti da eventi imprevedibili».

È stato questo il grimaldello che il commissario alla ricostruzione e sindaco di Genova Marco Bucci ha potuto usare per «dribblare» qualsiasi norma (o quasi) prevista dal Codice degli appalti in vigore. L'alternativa alla deroga era la paralisi: «L'articolo 32 è il potere più incisivo del commissario», ha spiegato Bucci. «È una deroga generale al Codice. Con le procedure normali oggi non è possibile prevedere nessun tempo certo».

Alla fine è stato un successo, nell'estate sul ponte si tornerà a circolare. Ma è stata anche la definitiva riprova di una sconfitta: con le norme che valgono oggi in Italia si combina poco o nulla. La stratificazione di regole, i procedimenti complessi e a volte cervellotici, una burocrazia attenta alla forma e per nulla alla sostanza bloccano tutto. Solo quando la pressione di politica e opinione pubblica supera una determinata soglia, gli ostacoli vengono travolti con un provvidenziale «liberi tutti». A quel punto, come ha scritto Carlo Stagnaro dell'Istituto Bruno Leoni, si passa «da una burocrazia di stampo sovietico» alla «assoluta discrezionalità del despota orientale».

Ma si può gestire un Paese così, a forza di eccezioni e di provvedimenti presi di volta in volta per far fronte a questa o quella emergenza? Ovviamente no. E in tempi in cui l'economia rischia il crac e il problema è salvare quel po' di benessere rimasto nella Penisola, il tema di regole ed eccesso di burocrazia è diventato caldissimo. Non solo nel campo delle costruzioni o in quello degli appalti pubblici.

CAVILLI E BANALITÀ

Chicco Testa, ex presidente dell'Enel, si è divertito sul Foglio a passare in rassegna alcune circolari dell'Inail che dovevano essere sottoscritte da chi, in tempi di quarantena, passava allo smart working: per chi lavorava all'aperto il consiglio era quello di non scegliere luoghi «privi di acqua potabile» o dove circolassero «animali incustoditi»; per chi invece lavorava in spazi chiusi, la raccomandazione messa per iscritto dai solerti funzionari dell'istituto era di non esporsi «a correnti d'aria fastidiose» e di «tenere gli avambracci sul piano» guardandosi bene dal tenerli sospesi.

Una sciocchezza di fronte alla strada scelta per garantire un flusso finanziario a migliaia di lavoratori appiedati dalla pandemia: il decreto Cura Italia ha resuscitato la procedura della Cassa Integrazione in deroga, da almeno quattro anni non più applicata a favore della cassa ordinaria e straordinaria. Per complicare le cose la procedura prevede un doppio passaggio, l'invio della domanda alle Regioni e il loro esame da parte dell'Inps. Visto che da un po' la Cassa in deroga non si usava più e bisognava fare in fretta, la Regione Piemonte ha dovuto richiamare dalla pensione un funzionario che si ricordava i passaggi da seguire.

REGI DECRETI

La solita Italia, verrebbe da dire. Con qualche nota surreale. Come quella scovata dagli esperti dell'associazione dei costruttori e raccontata da Sergio Rizzo sulla Repubblica: nei decreti «Cura Italia» e «Liquidità», i primi due sfornati per fare fronte all'emergenza, ci sono ben 622 rinvii ad altri testi, che contribuiscono a rendere l'interpretazione degli interventi salva-economia un esercizio possibile solo a raffinati esegeti del diritto. Spiccano, tra le altre, due perle: gli sbalorditivi rimandi a due Regi decreti che risalgono rispettivamente al 1910 e al 1923.

Uno dei tanti esempi della creatività del ceto burocratico-amministrativo italiano, che quando ha campo libero conosce pochi limiti. Carlo Cottarelli, direttore dell'Osservatorio Conti pubblici dell'Università Cattolica, ha notato per esempio che solo i tre decreti fondamentali per la risposta alla pandemia («Cura Italia, «Liquidità» e Rilancio», senza contare i provvedimenti attuativi), raggiunge un totale di 191mila parole. I corrispondenti provvedimenti adottati negli Stati Uniti, il cui nucleo fondamentale è costituito dal cosiddetto Cares Act, superano di poco le 61mila.

Per il momento, insomma, sta succedendo l'esatto contrario di quello che il Ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli dichiara in ogni intervista: «per uscire da questa crisi bisogna abbattere la burocrazia».

Il nodo centrale, come dice, per il momento senza troppi risultati, il Ministro, è proprio questo. E chi nell'economia ci lavora non si stanca di ripeterlo: «Invece di mettere in piedi decine di task force», ha detto di recente Alberto Bombassei, numero uno di Brembo, «il governo dovrebbe fare solo una cosa: approfittare del coronavirus per un'opera di radicale sburocratizzazione del Paese. Sarebbero i soldi meglio spesi della crisi».

SEMESTRE BIANCO

Per raggiungere l'obiettivo Giovanni Valotti, da pochi giorni ex presidente di A2A e professore di management pubblico alla Bocconi di Milano, ha proposto di istituire una «zona franca della burocrazia». È lui stesso a spiegare di che cosa si tratta: «Per un tempo definito, per esempio un anno, bisogna semplificare drammaticamente tutte le procedure, dimezzare i tempi per le nuove autorizzazioni», spiega (vedi anche l'intervista in basso; ndr). «Si fanno partire gli investimenti e poi si fa un bilancio: le innovazioni che hanno funzionato e che hanno dato una spinta al Paese da temporanee diventano definitive».

Pare che a Palazzo Chigi si stia studiando una soluzione di questo tipo: una sorta di «semestre bianco» anti-burocrazia, così è stato definito, in cui, come suggerito da Valotti, si disbosca radicalmente la giungla procedurale che tiene prigioniera l'economia. Il riferimento è quello che ormai da tutti viene definito «modello Genova», l'esempio rappresentato appunto dalla ricostruzione del ponte sul Polcevera.

Il primo campo d'azione, come è quasi ovvio, è quello dei lavori pubblici. Un provvedimento, oggi sul tavolo della Presidenza del Consiglio, potrebbe vedere la luce entro un paio di settimane. Le novità fondamentali sarebbero tre: la riduzione drastica di tutti i tempi delle autorizzazioni amministrative, l'individuazione di una trentina di opere da gestire con metodi «commissariali», la sospensione temporanea di parte del Codice appalti con la messa fuori gioco delle norme più paralizzanti attualmente in vigore.

COSE DA PAZZI

Sono tutti provvedimenti che sarebbero accolti a braccia aperte dagli operatori economici privati ma che devono fare i conti con le logiche della politica: tra i grillini c'è una spaccatura sempre più evidente che divide «realisti», pronti a rivedere con occhio «laico» la materia e «fondamentalisti» ideologicamente contrari. Anche nel Pd non mancano i difensori del Codice degli appalti (in qualche caso anche delle regole più macchinose).

La verità è che finché di semplificazione si parla sono d'accordo tutti, quando poi bisogna passare ai fatti iniziano le obiezioni ed i distinguo. Il risultato, come ha scritto qualche tempo fa sulla voce.info, Vitalba Azzollini, giurista e funzionaria della Consob, è che «spesso per una misura di semplificazione attuata ve ne sono altrettante che introducono nuovi adempimenti che possono mettere a rischio i risultati raggiunti con le semplificazioni precedenti».

La stessa Azzollini ha passato in rassegna i vari provvedimenti-semplificazione introdotti dal 2007 («Piano di azione per la semplificazione e la qualità della regolazione») a oggi. Sono talmente tanti che si fa fatica a contarli.

Qualche decennio fa, quando il sistema ferroviario pubblico era un carrozzone all'apparenza irriformabile, Andreotti diceva che ci sono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono risanare le Ferrovie. Anche mettere ordine nelle leggi e far funzionare la burocrazia sembra in Italia un esercizio per folli temerari.

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