Le "Lezioni" di Ian McEwan insegnano a sbadigliare

La critica lo osanna ma questa volta lo scrittore inglese, nel raccontare il suo nuovo antieroe, manca di mordente

Le "Lezioni" di Ian McEwan insegnano a sbadigliare

Tecnicamente è il classico romanzo di formazione, dove con questa espressione della critica si intende un protagonista che, strada facendo, pagina dopo pagina, ci racconta come è diventato quello che è. È già acclamato come il più bel romanzo di Ian McEwan, appena uscito in Italia, edito da Einaudi, e intitolato Lezioni. Ma, c'è un ma, ma ve lo posso dire solo io, perché tutti gli altri sono già a sdilinquirsi, hanno cominciato a recensirlo come il più bel romanzo di McEwan prima ancora che uscisse.

Premetto che sono un fan di McEwan, e ogni suo libro mi è piaciuto molto (soprattutto Solar e Sabato, anche perché è uno dei pochi autori aggiornati su ogni novità scientifica, e amico anche di Richard Dawkins), sempre con qualche piccolo ma, ma in questo caso il «ma» è grosso come una casa, come un romanzo di formazione che forma una sabbia mobile di parole da cui si esce come prima sbadigliando. Cosa che non succedeva con Charles Dickens, ed eravamo nell'Ottocento.

L'eroe, o l'antieroe, o l'uomo senza qualità, si chiama Roland Baines (all'inizio speravo Roland Barthes), figlio dell'autoritario capitano Robert Baines che ha fatto la Seconda Guerra Mondiale. Baines lascia la Libia per l'Inghilterra, e finisce in un collegio, dove ha la prima iniziazione sessuale con l'insegnante di pianoforte, e ne è terrorizzato. Evento che lo segnerà per tutta la vita. Perché questa insegnante, pure bellissima, lo picchiava (pizzicotti e una bacchettata con il righello, non pensate chissà cosa) e lo ha baciato, e «aveva seminato se stessa nel terriccio molle non solo della sua psiche, ma della sua biologia. Non c'era più orgasmo senza di lei. Era lo spettro di cui non poteva fare a meno». Mica male, l'avessi trovata io un'insegnante così, invece ho fatto le elementari dalle suore dove picchiavano tutti con la bacchetta (per fortuna però non mi hanno baciato, era tutte orribili). Invece no, un piagnisteo che dura centinaia di pagine.

Trova una moglie, Alissa, ma lei lo lascia (e te credo, io l'avrei lasciato per molto meno), viva Alissa. Con Alissa il nostro Baines ha fatto un figlio, e Alissa lo ha abbandonato anche con il figlio (tipo: «tienitelo»), un'altra tragedia per Roland che però accetta con rassegnazione, accetta tutto con rassegnazione, e il lettore con rassegnazione va avanti. Avanti ma anche indietro, perché Roland rimugina su tutto, vuole metterci dentro tutto.

Così continua a rimuginare sul suo futuro castrato da musicista, perché «la musica era una semplice realtà, una cosa di scuola, oppure un buio, come una foresta d'inverno, riservata a lui solo, suo provato labirinto di gelida angoscia». Alissa, abbandonandolo, gli ha lasciato questo biglietto: «Non mi cercare. Sto bene. Non è colpa tua. Ti amo, ma non intendo tornare. Ho vissuto una vita che non era la mia. Ti prego, cerca di perdonarmi». Lui la perdona? No, perché «è il vittimismo del fuggiasco contro l'amara lucidità dell'abbandonato, del lasciato andare».

Roland si rifugia nell'apatia, nell'indolenza, ma cercando di fare le cose bene, almeno fosse diventato un serial killer, oppure Freddie Mercury, che da Zanzibar all'India a Londra ne ha vissute peggio di lui. Macché. Sembra sia un superstite di un campo di concentramento, con la differenza che non è Primo Levi, è solo un pianista mancato che deve allevare un neonato. Si rinchiude in se stesso perché «l'inferno fai-da-te è una condizione interessante. Ce ne costruiamo uno tutti quanti, nell'arco di una vita. Certe vite poi, non conoscono altro. È una tautologia: l'infelicità autoinflitta costruisce un'estensione della personalità». Che come concetto è bello, ma il libro avrebbe dovuto scriverlo Thomas Bernhard, anche solo ruotando intorno a quest'idea.

Invece nei ricordi di Roland, nelle disavventure personali, c'è tutta la Storia del XX secolo, il padre, la Seconda guerra mondiale, la madre, Chernobyl, di nuovo la madre, la caduta del Muro di Berlino, il padre, la moglie, il Covid. Se arrivate alla fine avrete la soluzione di tutto il senso epistemologico del romanzo, che trovate ripetuta più volte anche prima: quanto gli avvenimenti della Storia possono condizionare la nostra vita? Ma va?

Tuttavia, vengo al punto: il punto debole è la scrittura. Bernhard, sempre per fare lo stesso esempio, ha scritto il romanzo della sua intera vita senza mai annoiare un secondo, perché la sua scrittura è potentissima. Ian McEwan è un autore Midcult. Non Midcult come i nostri autori da Strega, per carità (avercene), e è il motivo per cui vedrete, prenderà tanti premi e tanti applausi. Perché il punto debole è anche il punto forte: scrittura semplice, piana, controllatissima, senza guizzi, senza originalità, che se il romanzo non fosse firmato da Ian McEwan ma da Dan Brown l'avrebbero stroncato tutti come un romanzo di una noia mortale. Ma non viceversa: perché se Origin di Dan Brown, per esempio, fosse uscito firmato da Ian McEwan ne avrebbero parlato tutti come di un capolavoro (perché di fatto, letto senza regole e senza i parocchi categoriali della critica, lo è). In ogni caso, se vi piace McEwan, leggetelo, nel deserto di noia ci sono anche oasi di piccole agnizioni interessanti. Se non vi piace sappiate che il messaggio è questo: se nasci in Somalia durante una guerra dentro una capanna la cosa fa la differenza rispetto a essere uno dei figli di Elon Musk.

A meno che uno dei figli di Elon Musk non venga molestato da una bellissima insegnante della sua scuola. Non credo si farebbe i problemi di Roland, ma nel caso lo direbbe al papà che comprerebbe tutta la scuola per farla licenziare, e forse dopo la prenderebbe come amante. Ora, amanti di Lezioni, insultatemi pure.

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