"La tv ha rovinato la cucina, lo chef non lavora al circo"

Al re dei fornelli non piace la nuova moda che ha stregato i giovani: «Pensano sia un mestiere facile ma serve fatica, studio e tanta umiltà Cracco e Oldani? Allievi, non discepoli»

"La tv ha rovinato la cucina, lo chef non lavora al circo"

Tra le innumerevoli citazioni di artisti e filosofi che Gualtiero Marchesi ama evocare, ce n'è una di Nietzsche: «Bisognerebbe sempre avere la serietà dei bambini quando giocano». E con la serietà di un bambino, il padre nobile della nuova cucina italiana ha deciso di festeggiare il suo ottantacinquesimo compleanno provando a stupire il pubblico con nuovi tocchi di pennello al grande affresco della sua vita. Il primo è un nuovo ristorante affacciato sulle guglie del Duomo di Milano, dieci tavoli dedicati alle sue creazioni di ieri e di oggi. Il secondo è la pubblicazione del libro Il sapore dell'estetica , collezione non di ricette ma di sole immagini di piatti d'autore corredate dai suoi commenti magistrali e dagli aforismi preferiti. Il terzo è un master in «design della ristorazione» che battezzerà nei prossimi mesi in un importante ateneo milanese.

Non bastava la sua Accademia inaugurata neppure un anno fa in via Bonvesin de la Riva, una sorta di enclave filosofica della cucina?

«L'Accademia vuole essere un'altra cosa: un luogo dove da musicisti della cucina - cioè bravi esecutori dello spartito - si diviene compositori. E per diventare compositori bisogna studiare non solo la tecnica ma tutte le arti. Saper ascoltare e farsi scompaginare».

Il design fa parte di questo processo di formazione?

«Per fare un vero salto culturale occorre rovesciare le categorie, annullare gli stereotipi. Fino a oggi i ristoratori che cosa facevano? Ingaggiavano gli architetti d'interni e i designer per progettare un bel contenitore e poi sceglievano il cuoco. Io invece dico: partiamo dal contenuto perché tutto, dagli arredi al servizio di piatti deve raccontare il tipo di cucina che si vuol fare. E poi diciamo agli architetti ciò che devono fare...».

I cuochi-compositori che studiano da lei queste cose le sanno già?

«All'Accademia c'è ancora molta strada da fare perché venga recepito il mio messaggio di far crescere i cuochi verso una visione differente della cucina, vista cioè come un mezzo espressivo e non come un fine».

Si spieghi meglio.

«Io voglio fornire gli strumenti ai cuochi per sviluppare una propria sensibilità artistica. Do per scontato che sappiano cucinare bene perché arrivano tutti dall'Alma (Scuola internazionale di cucina italiana), ma io li mando a lezione da un pittore, da uno scultore, da un regista o da un direttore d'orchestra».

Insegnate ai cuochi a dipingere o a suonare?

«Voglio che capiscano cosa significa essere davvero un artista, saper scegliere un suono o un colore, inquadrare un'immagine, strutturare una sceneggiatura. Insomma, imparare l'anima della composizione...».

E riescono a seguirla?

«È questo il punto, siamo ancora un po' indietro culturalmente e sa perché? Il primo scoglio è che oggi i cuochi si considerano già degli artisti e non pensano neppure di dover tornare a scuola per imparare ancora. Quindi per presunzione fanno finta di ascoltare. Quelli che si manifestano più aperti e volenterosi, invece, a volte sono indietro tecnicamente...».

Dica la verità, l'esplosione della cucina su tutti i media ha creato dei mostri?

«Purtroppo sì, aggiungo anzi che certi programmi stanno rovinando la cucina. Oggi tutti si sentono grandi chef e facciamo un'enorme fatica a trovare ragazzi che vogliono affrontare questo lavoro con gli enormi sacrifici che richiede. Lo sa qual è stata definita negli Stati Uniti la professione più ambita dai giovani da qui al 2018?».

Immagino lo chef...

«Esattamente. Tutti hanno la folle idea che questo sia un mestiere facile e non sanno neanche che la parola chef vuol dire capo. Così all'improvviso si sentono tutti capi... Ho citato gli Stati Uniti perché questo assurdo fenomeno dei talent è cominciato lì. Il resto dei danni lo fanno i nostri sindacati che non ti lasciano lavorare. Basta che un lavapiatti faccia un turno in più e apriti cielo...».

Lei è l'unico grande chef che non si vede in tv, tranne che come ospite. Possibile che non abbia mai pensato a un suo programma?

«Per la verità ci ho pensato eccome, anzi ci sto pensando, ma immagino un programma con un format completamente diverso rispetto alle trasmissioni pop che affollano i palinsesti e che per funzionare devono a tutti i costi coinvolgere il pubblico. Serve una televisione che parli di cucina molto seriamente, in un'ottica culturale».

Niente gare-spettacolo quindi?

«Se sfida dev'essere, sia soltanto tra grandissimi professionisti. Perché la cucina non è un circo».

Lei tiene molto al ruolo di maestro. Chi è stato il suo?

«Beh, non posso negare che l'esperienza nel 1968 a Roanne a bottega dai fratelli Pierre e Jean Troisgros sia stata fondamentale per me. Quando me ne andai dissi a Jean: “Me ne vado perché adesso ho capito”. Lui mi diede la sua benedizione chiamandomi discepolo».

Che cosa aveva capito?

«Avevo capito come si cucina, il rapporto con la materia, quello con il fuoco, come si fa a conservare la vitalità di un cibo e come lo si uccide...».

A proposito di discepoli. Da Cracco a Oldani a Berton, tutte le star della cucina si presentano come figli suoi. Ma lei, se proprio deve, cita solo Paolo Lopriore di Como ed Enrico Crippa di Alba.

«Una cosa è dire allievo, un'altra è discepolo. I divi del momento li conosco uno per uno, ma non li giudico. Lopriore e Crippa hanno lavorato con me fianco a fianco all'Albereta e in loro riconosco la genialità e l'entusiasmo che ho sempre avuto io. Alcuni miei piatti sono nati a quattro mani con loro. A volte io avevo un'idea e loro la realizzavano proprio come io l'avevo avuta in testa».

Quali devono essere le prime doti di un buon allievo?

«L'umiltà innanzitutto, poi lo studio e la conoscenza della materia. Chi vuol fare questo mestiere deve imparare perfettamente tutti i tagli e le consistenze delle carni, i diversi punti di cottura. Ci vuole tanto lavoro e tanta serietà. I miei migliori allievi arrivavano all'alba, finivano il loro turno e subito tornavano a riprovare i piatti. Oggi all'Alberghiero si fa troppa teoria e poche ore in cucina. I giapponesi invece studiano due anni soltanto per imparare come si taglia un pesce...».

Lei adora la cucina giapponese...

«Sono i veri maestri contemporanei perché rispettano il cibo e non lo violentano mai, infatti per Expo li inviterò in Accademia a tenere dei workshop. Loro hanno sempre saputo che se un prodotto è di qualità (come dev'essere), meno si interviene e meglio è. A Tokio ho provato piatti incredibili».

Ad esempio?

«Un calamaro preparato in sottilissimo sashimi e servito su un blocco di ghiaccio, con la testa che si muoveva ancora».

E della cucina italiana oggi che cosa pensa?

«Per me quella italiana è la vera cucina fusion, e ancora non lo abbiamo capito. Quando i cuochi impareranno davvero a rivisitarla, cioè ad alleggerirla, i francesi dovranno chiudere bottega. D'altronde non dobbiamo dimenticare che i capisaldi della nostra cucina regionale, i famigerati piatti poveri, sono nati molto carichi perché gli uomini lavoravano col sudore della fronte e le donne partorivano in campagna».

A proposito di francesi. Il suo «alter ego» Alain Ducasse ha aperto a Parigi un ristorante interamente vegetariano, che ne dice?

«Che non è mica scemo. Da quelle parti hanno commissionato uno studio da cui risulta che nei prossimi anni la cucina francese sarà superata da quella giapponese e italiana, più sane e sostenibili. E Ducasse guardacaso si inventa la svolta vegetariana. Con gli stessi prezzi e le stesse stelle, ça va sans dire ...».

Ora inaugura un nuovo ristorante a Milano dopo «il Marchesino», che è un omaggio alla tradizione meneghina, mentre nel 2016 aprirà finalmente il nuovo relais di Castel Conturbia. All'estero il brand Marchesi funziona?

«Ho già fatto diverse esperienze tra Londra, Parigi e Mosca, ma so che le cose funzionano solo se sei presente fisicamente. Senza contare che nell'immaginario degli stranieri l'Italia non fa rima con alta cucina, ma con porzioni abbondanti. Nel '96 nel mio ristorante a Mosca un cliente si arrabbiò perché mancava il peperoncino...».

Nel 2008 restituì provocatoriamente le sue stelle alla Michelin. Detesta ancora le guide?

«Lo feci perché non ho mai sopportato i critici che danno voti senza sapere di cucina, come chi dice di conoscere le strade senza

avere la patente. Ma oggi è molto peggio, c'è l'anarchia di internet e di Tripadvisor , dove a decidere sono i dispetti di clienti e concorrenti. Mi tocca rivalutare la Michelin, stavamo meglio quando stavamo peggio...».

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