Anno 1 a.C .“Che di ispidi peli pungenti non sia mai la vostra gamba “ ammoniva Ovidio nella sua Ars amatoria III,194”.
Anzi no, fermi tutti. Contrordine: i peli sul corpo femminile sono un valore aggiunto. Da amare, coltivare, valorizzare e lasciare crescere in tutta libertà.
Ascelle, inguine, pube, gambe, braccia, volti con peluria vengono orgogliosamente esibiti in rete. Le foto testimoniano il desiderio di una parte della popolazione di voler mettere fine alla antica pratica della depilazione per affrancarsi da diktat socio culturali vissuti come tabù esclusivi ed oppressivi.
Come a dire: “Il pelo è mio e lo gestisco io”.
I tempi sembrano maturi ma non è sempre stato così.
Estirpati ad uno ad uno con pinzette, rasati con lamette, decimati con creme all’ammoniaca, strappati dal bulbo con cerette, tagliati abilmente con l’uso di fili di cotone, annientati alla radice con laser e luce pulsata o decolorati per renderli meno visibili, i peli sono stati (e per molti lo sono ancora) oggetto di una guerra sistemica senza scampo.
Qualcosa di cui vergognarsi, da nascondere (con l’aiuto di pantaloni, abiti lunghi con maniche e calze coprenti) di cui liberarsi al più presto per non essere additate come persone trascurate e poco femminili.
Tirannia o piacere?
La loro storia è articolata. E sarebbe riduttivo limitare la bagarre del pelo ad un bipolarismo puramente estetico che divide i favorevoli dai contrari, perché la battaglia è anche socio culturale e politica.
La pratica della depilazione risale all’epoca della pietra. E la sua funzione essenziale era legata alla sopravvivenza. Dimentichiamo l’iconografia che ritrae uomini e donne delle caverne come esseri irsuti.
Essi furono i primi a liberarsi di peli e capelli e lo fecero per proteggere la loro incolumità. Tagliandoli impedivano ai loro avversari durante lotte di afferrarvisi con dolorose conseguenze.
Migliaia di anni più tardi anche gli egiziani (inventori della ceretta che conosciamo oggi) si mostrarono pro depilazione. Le loro motivazioni erano socio culturali.
Consideravano i peli sinonimo di inciviltà e barbarie: dipinti come ricettacolo di sporcizia, venivano rimossi per una questione di igiene.
L’atto di liberarsene, in più, sigillava l’appartenenza ad uno status sociale elevato.
I peli continuarono ad essere visti come simbolo di volgarità anche nell’Impero romano.
Le statue greco-romane che rappresentavano corpi di donna incarnano ancora l’ideale di bellezza condiviso all’epoca: il concetto di superiorità e purezza passava dalla pelle liscia e glabra.
La regina Elisabetta I fu la pioniera della rimozione di peli facciali. Le donne la imitarono depilandosi le sopracciglia e sottoponendosi a vere e proprie torture per rimuovere parte dei capelli dall’attaccatura della fronte ed ottenere un ovale più allungato, per motivi meramente estetici.
La Chiesa cattolica dal suo canto promosse il concetto che definiva i peli come un dono di Dio e un segno di femminilità. Liberarsene per ragioni di civetteria non era raccomandato, tuttavia essi dovevano rimanere al riparo da sguardi indiscreti: mostrarli in pubblico era sconveniente ed immorale.
Poi con Gilette nel 1915 arrivano i primi rasoi, di lusso, placcati d’oro, venduti in scatole di avorio francese chiamati Milady Decollette per sole donne. Un oggetto che risolve “un problema personale imbarazzante” si legge sulle réclame dell’epoca “ per mantenere le ascelle bianche e lisce”.
Le pubblicità spingono il gentil sesso a considerare i peli come qualcosa di orrendo di cui liberarsi.
I media confezionano gli standard di bellezza femminile attraverso le immagini sui giornali e film che ritraggono figure eleganti perfettamente depilate. Le donne capitolano tutte (o quasi).
Negli anni ’60 e ’70 con la moda delle minigonne che mostrano il corpo da un lato, la maggior libertà e il movimento femminista dall’altro, parte delle donne rivendicano la libertà di smettere di depilarsi, un atto di ribellione e protesta verso i canoni costrittivi dell’epoca.
Tra gli slogan degli anni ’70 “io sono mia” riferiti alla volontà di gestire il proprio corpo in autonomia e i moderni (in alcuni casi non proprio elegantissim) hashtag: “long hair I don’t care “ (peli lunghi non mi importa) i punti di incontro e le analogie sembrano solo superficiali.
Bisogna approfondire dunque le motivazioni più che il grido taggato per portare alla luce i contenuti della protesta attuale.
Chi ha deciso di affrancarsi dalla depilazione afferma che lo fa in nome del risparmio economico ( si calcola che una donna spenda dall’estetista in media 500 euro all’anno per depilarsi) e di tempo e comodità ( la depilazione è stata definita una pratica cronofaga). E vuole farla finita con il dolore fisico ma rivendica soprattutto la libertà, quella di fare dei propri peli ciò che desidera e di essere accettata per come è, al naturale, con un irsutismo normalmente disprezzato ed oggetto di scherno. Un aut aut al body shaming (la critica del corpo) in favore della celebrazione della diversità e bellezza di tutti i corpi e tutti i gusti.
In rete però c’è chi ha già derogato sulla motivazione cronofaga e ha cominciato a tingere i peli delle proprie ascelle con toni fluo o arcobaleno non senza difficoltà per la posizione scomoda assunta durante i lunghi tempi di posa del colore.
Cosa rappresentano dunque i peli oggi?
I peli diventerebbero un mezzo di espressione individuale di rottura con i cliché e con le generazioni passate. Vorrebbero ergersi come simbolo di modernità della donna, libera di scegliere, di rompere le catene della dominazione maschile e del controllo della propria sessualità, uscendo da standard preconfezionati .
Un simbolo per combattere l’imposizione di un modello che non include e che sponsorizza solo l’ideale di un corpo liscio e bello contrapposto ad uno peloso e ripugnante di cui vergognarsi.
Il pelo (superfluo) assumerebbe un significato politico ed antropologico nel controllo dei rapporti di dominazione.
Importanti brand di abbigliamento, attenti alle evoluzioni del mercato, non hanno esitato ad usare testimonial con ascelle e gambe non depilate, facendo parlare di loro.
Mostrando la loro vicinanza al movimento, interessati a conquistare i consumatori con un’intelligente operazione di marketing, raccolgono il favore di chi lo appoggia.
Anche chi produce rasoi e non dorme più sonni tanto tranquilli, si inventa nuovi modi di comunicare e con una campagna
riuscita fa appello al suo pubblico in crisi invitandolo con un messaggio che punta sull'inclusività a non scartare nessuna opzione, neppure quella di depilarsi.
“Vado a letto felice ogni sera consapevole che dei peli stanno crescendo sul viso di migliaia di maschi e sulle gambe di donne di tutto il mondo mentre dormo. É più divertente che contare le pecore” dichiarò Warren Buffet, azionista di maggioranza della Gilette, in tempi non sospetti, lui che pensava, come tutti, che l’unica ed esclusiva opzione fosse depilarsi.
É possibile che l’industria cosmetica vada incontro ad un decremento del fatturato totale nel settore dell’epilazione, perdendo una parte di potenziali clienti donne, soprattutto le più giovani, che hanno deciso di deporre le armi nella guerra contro i loro peli per imbracciare quelle pro inclusività.
Eppure un fenomeno compensatore targato “man-icure” ( manicure dell’uomo) fa capolino e promette di trasformarsi in una realtà fiorente: una nuova ulteriore opportunità che l’industria non si lascerà sfuggire.
Un crescente numero di uomini indosserà lo smalto.
Al pari del rifiuto di depilarsi, anche questa pratica è vissuta come “un atto di libertà inclusiva”.
Per il settore della cosmesi rappresenta una conquista di milioni di unghie da dipingere con prodotti un tempo vendibili solo
al comparto femminile.
Così, mentre ognuno cerca la propria strada verso la libertà, l’industria corre in aiuto per rimuove gli ostacoli, mantenendo uno sguardo fisso sulle possibilità (inclusive) che il mercato le offre.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.