L'impegno oltre l'"impegno" di Avati

Un ritratto dal vero del regista che nei suoi film espone una modernità alternativa

L'impegno oltre l'"impegno" di Avati

Il reparto delle librerie dedicato alla cinematografia da anni si va rimpicciolendo. Sull'argomento si pubblica ancora molto, ma i lettori sono sempre di meno. È diventato ormai difficile leggere un bel libro di cinema. Continuano ad uscire numerosi saggi specialistici. Spesso scritti ad uso e consumo di una comunità ristretta. Non di rado appesantiti da un linguaggio difficile. E, troppo spesso, zeppi di ovvietà.

Di diverso taglio è il lavoro che Massimiliano Perrotta ha dedicato a Pupi Avati. Un lavoro anomalo, poiché uscito in otto puntate a cadenza settimanale sulla testata online HuffPost Italia. È l'annuncio di un saggio più articolato. Ma già, pur nell'esposizione delle linee essenziali, di notevole rilievo, poiché esce decisamente dai consueti binari. Il titolo è di per sé accattivante: Pupi Avati fuori dal cinema italiano. Una interpretazione «politicamente scorretta». L'autore è chiaro sin dalla premessa. Sogna - scrive - di «avviare, a livello artistico, culturale, politico, una revisione critica radicale degli ultimi decenni. Il cinema di Pupi Avati non va rivalutato o sdoganato: va letto con occhi vergini, con occhi post-novecenteschi, con gli occhi di domani».

Partiamo dalla scelta del soggetto: la lunga carriera cinematografica di Avati. Giuseppe (Pupi) Avati, nato a Bologna nel 1938, è un sessantottino. Nel senso che debutta nel 1968 con un horror anomalo e sperimentale (la sua passione): Balsamus, l'uomo di Satana. Da quel momento, insieme all'inseparabile fratello Antonio, realizza una impressionante lista di lungometraggio (quota 50 è vicinissima). Ancora oggi, superata con disinvoltura la boa delle ottanta primavere, è sul set a dirigere la sua ennesima pellicola. Entriamo subito nel vivo della questione. Avati - e la sua opera - sono un corpo estraneo nel cinema italiano. Il regista bolognese gode di rispetto. Considerazione. Talvolta gli è stato riconosciuto anche talento. Ma lo statuto di artista, autore, quello proprio no! Al massimo è un buon giocatore di una serie inferiore. Volete mettere Marco Bellocchio? I fratelli Paolo e Vittorio Taviani? Non scherziamo! Quelli sì che hanno rappresentato l'Italia. Nell'antropologia. Nell'impegno civile. Nella qualità estetica. Avati, al massimo, è il cantore dell'Italietta. Piccina. Provinciale. Contadina. Piccoloborghese. Attaccata, talvolta avvinghiata alle tradizioni. Che odora di sacrestia. Democristiana.

Ma è un grave fraintendimento, come ben rivela lo scritto di Perrotta. Gli inizi della carriera di Avati sono ondivaghi. Talvolta zoppicanti. È alla difficile ricerca di una propria cifra stilistica. Raggiunta in Una gita scolastica (1983). Da quel film delicato, poetico, che a molti commentatori apparve vecchio e fuori dal tempo, nasce invece la mappatura visiva della secolarizzazione modernista dell'Italia, dagli anni Ottanta ad oggi. La parola d'ordine del cinema italiano di fine secolo è stata «impegno». Avati salta a piè pari l'ostacolo. Il suo impegno sarà descrivere tutto ciò che l'impegno non può e non vuole rappresentare. Per questa ragione non viene compreso, in buona o cattiva fede, volontariamente o involontariamente, da quanti osservano le sue istantanee, scattate a ripetizione. Avati offre l'impressione di girare sempre l'identico film. Invece, indossati i panni dell'artista solitario, si muove agilmente frequentando generi ed epoche diverse. La difficoltà del vivere di tutti i giorni alla pari dell'esistenza medievale. La secolarizzazione ha mutato in profondità l'Italia. Ne ha snaturato comportamenti, usi e abitudini. Il Sessantottopensiero è stata la dinamite posta alle fondamenta dell'edificio. La deflagrazione è stata totale.

Ma Avati ha continuato, imperterrito, a camminare per la propria strada, in solitaria compagnia. Maestro senza allievi. Maestro sprovvisto di riconoscimenti. La barra dritta della sua ricerca artistica ha trovato fondamento essenziale nell'universo valoriale cristiano. Nell'umanesimo cristiano. La figura di Avati rimanda a quella di Erasmo da Rotterdam. Il grande umanista cristiano si trovò a vivere in un contesto scomodo. Costretto a misurarsi con la Riforma protestante e la successiva Riforma cattolica, restò fedele ai propri convincimenti, raccogliendo ostilità da ambo le parti. Il tempo successivo, sotterrate le contrapposizioni, ne ha misurato l'importanza. Il cinema di Avati non è mai sembrato, alla cultura dominante, al passo con i tempi. Ma i tempi sono cambiati. E le opere di registi che sembravano moderni, modernissimi, oggi sono obsolete. Mentre il cinema antimoderno di Avati, oggi, se guardato - come suggerisce Pezzotta - con occhi nuovi (privi di quei pesantissimi paraocchi ideologici che hanno annebbiato sin troppi sguardi), rappresenta un contenitore ricco di sorprese.

Avati non ha attaccato la nuova modernità secolarizzante. Né ha invocato il ritorno ad un passato paradisiaco. Sa troppo bene che in terra il Paradiso non è edificabile. Ha soltanto indicato la possibilità di una modernità alternativa. Il suo è stato un silenzioso, appartato ma convinto impegno civile, nel ricordare chi siamo stati e quale è stato il nostro passato, lontano o recente. Il Medioevo, tanto per fare un esempio, non rappresenta l'autunno della civiltà occidentale, né un'età buia. I suoi «non eroi» spesso hanno il volto poco appetibile dei perdenti. Ma è il volto sofferente dell'umanità, che non si trova solo negli anfratti più inquietanti e nelle tante marginalità sociali.

Per concludere, il cinema di Avati è tutto da rileggere.

Poiché rileggendolo, saremmo costretti a rileggere non solo il passaggio epocale dall'industriale al postindustriale, dal moderno al postmoderno, ma anche il traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un attraversamento al tempo stesso politico e cinematografico. Il lavoro è solo agli inizi. La prima bozza di Perrotta è pronta. Ora occorre dar seguito, ognuno come può, ai suoi coraggiosi e innovativi ragionamenti.

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