Il linguaggio politico della Curia

Chi pensa che la Chiesa non abbia diritto di intervenire anche su questioni come immigrazione clandestina, rom o la moschea di viale Jenner si sbaglia di grosso. Vescovi e sacerdoti hanno anzi il dovere pastorale di esercitare il magistero ecclesiale su tutti gli argomenti che abbiano rilevanza etica e sociale. Altrimenti la vita religiosa finirebbe per ridursi a fatto privato e la Chiesa, intesa come comunità dei credenti, cesserebbe di esistere. Ed è altrettanto chiaro che poi lo Stato laico deciderà in assoluta autonomia, tenendo conto di quegli interventi quanto riterrà opportuno. È una disarmante ovvietà che certi iper-laici nostrani si ostinano a non capire, intimando ai vescovi di tacere quando si oppongono ai matrimoni gay e plaudendo quando criticano le misure di controllo dell'immigrazione clandestina e delle comunità rom. Ma c'è qualcosa che inquieta negli ultimi interventi della Curia milanese - ripeto, assolutamente legittimi - su questi argomenti come su altri: il linguaggio. Sempre di più sia il cardinale Tettamanzi sia i suoi rappresentanti affrontano questi temi utilizzando una terminologia squisitamente politica. Parlano di fascismo, totalitarismo, populismo, di manipolazione mediatica. Illegittimo per un monsignore o per un prete? Certo che no. Ma mi ostino a credere che i loro argomenti e il loro linguaggio dovrebbero avere altri riferimenti: la carità, la pietà, l'amore. Insomma, il Vangelo e non un volantino politico o un quotidiano di partito.

Giacché se gli argomenti sono politici non ho bisogno di sentirmeli ripetere da un prete. Carlo Maria Martini aveva gli stessi orientamenti di Tettamanzi, ma li esprimeva col linguaggio del Vangelo e della Bibbia. Perciò aveva più carisma.

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