Chi ci guadagna dalla guerra in Libia? Non l'Italia. E' questa la preoccupazione che serpeggia tra i banchi della maggioranza.
Una paura che è stata messa nero su bianco nella risoluzione di
maggioranza: "assumere ogni
utile iniziativa affinchè le imprese europee impossibilitate ad onorare i
contratti in essere in ragione delle sanzioni
Onu e Ue trovino una tutela negli articoli 10 e 12 del regolamento Ue
204/2011, che rispettivamente prevedono le
modalità per assicurare i pagamenti dovuti alle imprese europee in base a
contratti precedenti l’entrata in vigore
delle sanzioni e la preclusione di eventuali azioni legali per
inadempimento contrattuale" recita il punto quattro della bozza e
"riattivare, non appena le
circostanze e le tensioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu lo
renderanno possibile, gli accordi bilaterali, in
particolare quelli in materia energetica, stipulati dall’Italia con la
Libia". Il governo fa quadrato di fronte attorno a imprese, gas e
petrolio affinchè i soldi delle commesse non vadano a infilarsi in altre
tasche. E poi le sanzioni, una spada di damocle che andrebbe a pesare
su telle aziende impegnate in Libia.
Lo ha detto con la consueta chiarezza il ministro della Difesa Ignazio La Russa: "Io non ho mai detto: partiamo. È stato l’Onu che ha detto: 'partite'. Ci siamo trovati a decidere una cosa che non avremmo mai vouto fare. L’Italia da questa vicenda non può avere alcun vantaggio". E lo ha anche ribadito il presidente della Regione Lombardia in un'intervista al Giornale.it: "Questa operazione rischia di difendere gli interessi francesi e non quelli italiani". Sul piatto ci sono i rifornimenti enrgetici, prima di tutto gas e petrolio. Non è poca roba e non si tratta neppure di quei contratti economici che non hanno ripercussioni sulle tasche dei cittadini: è finanza molto pratica e poco teorica. E il pensiero va subito al gasdotto che ci porta i rifornimenti da Tripoli alla Sicilia. La Libia è il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l'Italia. Nel frattempo dal 14 febbraio a oggi il prezzo dell'oro nero è salito del 24 per cento e oggi un barile di petrolio costa più di 105 dollari.
Nel corso degli ultimi anni si è saldato un ponte economico tra Roma e Tripoli sul quale hanno viaggiato commesse milionarie e appalti che ora rischiano di rimanere ai box per anni o, nella peggiore delle ipotesi, di saltare del tutto. Un esempio? L'autostrada dell'Amicizia, la lunga arteria che dovrebbe tagliare tutta la Libia da confine a confine unendola all'Egitto e alla Tunisia. Quasi duemila chilometri di asfalto chiesti dal Colonnello per saldare il debito del colonialismo, un progetto da più di centoventimilioni di euro totalmente affidato agli italiani e ora bloccato dal conflitto.
Poi ci sono Finmeccanica, Unicredit, Impregilo, Fiat (con Iveco) e la Juventus: i nomi più grossi delle cento aziende italiane che investono nel paese di Gheddafi.La questione libica può trasformarsi in una bomba non solo demografica pronta ad esplodere a poco più di trecento chilometrii dalle nostre coste. Rimane la paura che Sarkozy brindi con il nostro petrolio...
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