Il Centro studi Sintesi, che li ha scovati, li ha battezzati «comuni anomali». Ma è stato troppo buono. Sono gli enti locali che spendono da ricchi ma incassano da poveri. In Italia non è un’anomalia, perché nel settore pubblico spesso le allegre gestioni sono la normalità. Bisognerebbe dunque chiamarli comuni vergognosi, disastrosi, pericolosi. È per colpa anche di questi sindaci, qualsiasi casacca di partito indossino, che il debito pubblico si è gonfiato a dismisura. Anno dopo anno, le amministrazioni spendaccione si consolidano ed è sempre più difficile smantellarle. Anche perché ci si rassegna all’inefficienza e allo spreco.
L’analisi elaborata da Sintesi, emanazione della più famosa Confartigianato di Mestre, è impietosa. Grafici e tabelle mettono a confronto la capacità fiscale dei vari comuni, cioè l’imponibile Irpef medio per ogni cittadino, e la spesa corrente riportata nei bilanci comunali. Non è che i municipi debbano decidere quanto spendere in base alle tasse versate dai propri elettori, non esiste un legame diretto stabilito da leggi o regolamenti. Ma una quota delle imposte finisce comunque ai comuni: le addizionali, le tasse sui rifiuti, l’Ici, cui si aggiungono i trasferimenti dallo Stato. Ma il test funziona anche come assaggio per l’imminente arrivo del federalismo fiscale, quando una quota maggiore di gettito non prenderà più la via di Roma.
Così, il confronto tra tasse prodotte e spese dei comuni rende l’idea se un sindaco o un consiglio comunale vuole vivere secondo le possibilità del territorio o al di sopra. Se cioè gli amministratori sono cicale o formiche.
E la realtà è che in certe zone d’Italia, soprattutto al Sud, la sproporzione è paurosa. In alcuni comuni la capacità fiscale è nettamente inferiore alla media nazionale, cioè si produce meno e quindi si versano meno tasse, mentre la spesa è molto superiore alla media. Le regioni più virtuose (redditi alti, spesa bassa) sono Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna. Le più sprecone? Sardegna, Sicilia, Molise. Qui si concentra quel 6 per cento dei comuni italiani in cui il reddito medio pro capite è inferiore del 30 per cento rispetto alla media e contemporaneamente la spesa corrente supera la media del 30 per cento.
La capitale dello squilibrio è Napoli. Non c’era bisogno di scomodare la contabilità nazionale, bastano i cumuli di immondizia per le strade a certificare la cattiva gestione delle amministrazioni locali. Comunque, la terza città d’Italia presenta un indice di spesa al 129 per cento contro una capacità fiscale del 64. L'elenco del disonore comprende anche Catania, Palermo, Cosenza, Oristano, Cagliari. Agli antipodi si collocano invece tre città «rosse»: Piacenza, Reggio Emilia e Ferrara. Qui l’indice di spesa viaggia tra il 75 e l’80 per cento (cioè si spende un quarto in meno) mentre la capacità fiscale supera la media italiana. Al quarto posto si piazza Roma, una sorpresa: evidentemente i tagli del sindaco Alemanno funzionano sull’equilibrio dei conti. Seguono le città del Nord con la migliore qualità della vita: Bergamo, Cremona, Sondrio, Varese in Lombardia, Cuneo, Biella, Novara, Vercelli in Piemonte e quasi tutti i capoluoghi veneti.
La parte più rassicurante dello studio è che tre quarti dei comuni italiani si collocano in una situazione di sostanziale tranquillità, cioè spendono in proporzione a quanto il territorio può produrre.
I casi più allarmanti si registrano in Sardegna, dove 43 comuni su 100 presentano un disequilibrio strutturale, in Sicilia (29,2 per cento), Molise (25 per cento). Umbria e Trentino Alto Adige hanno due soli comuni con problemi; Friuli, Toscana, Emilia e Veneto uno ciascuno, la Valle d’Aosta nessuno. Il paradiso delle montagne è anche l’eden dei conti pubblici.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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