Lode a Pan, maestro di Apollo e padre adottivo di Dioniso

Come il più noto fratello Ernst, l'autore tedesco riconobbe nel dio selvaggio l'incarnazione della felicità e della libertà

Lode a Pan, maestro di Apollo e padre adottivo di Dioniso

«Ma cosa non è destino? Lo è anche la stupidità dell'uomo, per lui stesso e per gli altri». Nel 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Friedrich Jünger, fratello del più noto Ernst, scriveva un'impietosa, meravigliosa disamina sull'evoluzione - o forse l'involuzione - dell'essere umano, Apollo, Pan, Dioniso, meritoriamente pubblicata da Le Lettere (a cura di M. Bosincu, pagg. 288, euro 18).

Per farlo, prendeva in prestito tre dèi del pantheon ellenico. Se l'opposizione tra Apollo e Dioniso, anche grazie all'illustre precedente nietzschiano, era stata già abbondantemente sondata, la scelta di Pan, «bicorne, irsuto, selvaggio», è decisamente sui generis, ma si inserisce in quella nostalgia per il «ritirarsi degli dèi e l'avvento dei titani» che accomuna la - sofferta - riflessione di entrambi i fratelli Jünger sui propri tempi («da tempo mio fratello e io ci siamo occupati, sia soffrendone che essendone spettatori, del ritirarsi degli dèi e dell'avvento dei titani», scriveva Ernst Jünger nel 1982).

Il dio Pan era stato uno dei grandi protagonisti della cultura fin de siècle e degli inizi del Novecento, come testimoniano Gabriele d'Annunzio, che rovesciava il misterioso annuncio raccontato da Plutarco, «il grande Pan è morto!», cantando, nelle sue Laudi, «il gran Pan non è morto!»; o il sontuoso Pan «eterno» di Pascoli, che nei Poemi conviviali «ulula e corre e guazza nel profondo fiume, come la pioggia al par del vento»; o il Pan di Mourey, che descriveva la Naiade sedotta dal flauto del dio e la «voluttuosa dolcezza» della notte della ninfa, che si abbandona alla forza ondeggiante di tutte le cose stordita dai dolci suoni dello strumento pànico per eccellenza, fino all'eroticissimo sussulto finale («Oh Pan, non ho più paura di te, io ti appartengo!»). Perché Pan, come scrive Jünger, è il dio del sesso, del «mistero che infonde paura e piacere, che è il sesso stesso». Pan cerca sempre il sesso, e le sue ninfe, che il dio caccia e abbandona, sicuro di incontrarle di nuovo, sono la «freschezza, la nudità, la bellezza», quel lato oscuro della natura che attira e sfiora con la follia, «che uccide e fa sprofondare». La natura selvaggia, la «terra senza nome», «non definita e demarcata», è l'origine, «quella da cui proveniamo e a cui possiamo tornare»: è quella che troviamo agli albori del mattino, «scintillante di rugiada», ma anche nei boschi, nei gemiti dei giunchi che oscillano nel vento, tra le canne e i morbidi fiori profumati che si confondono nell'erba, o tra le vette nevose, i ruscelli, le grotte e le rupi inaccessibili. E questa «sacra natura selvaggia» in cui, scriveva Hölderlin, «è così dolce errare», è il regno del «grande Pan», ed è, allo stesso tempo, violenta, terribile e dolce.

E non a caso l'incontro con Pan e la natura sono uno choc per l'uomo, perché provocano, contemporaneamente, terrore e serenità, perché non sono e non possono essere mitigati e graduati, e lo trasformano: un tema, questo, molto caro a Jünger, pioniere ante litteram della questione ecologica, per cui l'esistenza appartata, nella natura, era da ricercare («vivere nascosti senza doversi nascondere significa vivere bene», scriveva, aggiornando il mai troppo ascoltato monito di Epicuro, «vivi nascosto»). Pan ama la musica, la danza e la poesia, ed è dio della melodia pastorale e della poesia bucolica: con il suo flauto, strumento di cui è inventore, ripete i sospiri delle ninfe, ed è il «signore che guida le danze degli dèi», come scriveva Sofocle. Le giornate del dio sono luminose e terse, perché non hanno inizio né fine: Pan non conosce il tempo, che, come scriveva Jünger, «è indissolubilmente legato al dolore e alla sofferenza». Ed è felice, «divinamente selvaggio e lieto». In Pan, l'apollineo e il dionisiaco sono ancora uniti; ed è per questo che è sia il maestro di Apollo - il «più sereno degli dèi», che non ama la sofferenza e a cui sono estranei il fervore mistico, l'auto-annichilimento estatico, le visioni ascetiche dell'anima «giubilante o disperata» -, sia il padre adottivo di Dioniso, il dio di ogni eccesso. Soprattutto da giovane, prima di separarsi dall'essere pànico e mostrarsi in quella tenera, delicata, giovanile bellezza che seduceva anche Penteo nelle Baccanti di Euripide («Hai riccioli lunghi, ti scendono lungo le guance, ispirano desiderio. Fuggi il sole, e vai a caccia di amori con la tua bellezza, nella tenebra»), Dioniso mostra la sua parentela con Pan: Dioniso, però, «è la svolta del tempo», è l'inversione. Quel tempo che rende impossibile la felicità dell'uomo, e che Dioniso contrasta con la follia, con l'ebbrezza, con la metamorfosi e il movimento incessanti.

Pan e Dioniso, insomma, rappresentano la ricerca dell'anima dell'uomo che, scriveva Chateaubriand, «chiede l'eterno» e che, «nel deserto

dell'intelletto», implora «una seconda promulgazione del Vangelo»: perché chi brama non può essere sereno, «ma ha la sua profondità nella misura in cui è incompleto, e sente sulle sue labbra il sapore che precede e segue la dolcezza».

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