Riccardo Signori
«Mamy, hai visto Robin Hood nel bosco?». Cosaltro avrà detto quel pupazzo in giacca a vento rosa, sbucato sulla neve? Ultima, forse la più bella, magia di questa olimpiade. Una bambina che va ad abbracciare la sua mamma sulla neve, come fosse un gioco, un momento di spensierata felicità. Senza vincoli, senza polizia che ti controlla il pass, guardie che si preoccupano, atleti che strabuzzano gli occhi, giornalisti che saltabeccano. Foto che incornicia lanima di una olimpiade, storia che tutti vorrebbero raccontare e sempre ricordare. La mamma è Katerina, Katerina Neumannova, la regina delle trenta chilometri di fondo, conclusa con un rush mozzafiato prima di lasciarsi andare, radiosa e senza forze, in mezzo a quella neve che mai avrà sentito più calda e carezzevole. Eppoi, appena lo sguardo finito nel profondo bianco si risolleva dalla neve, ecco sbucare Lucia, due anni, braccia larghe e camminata incerta come un batuffolo che cerca sicurezza e tenerezza. Cosa può esserci di più bello per una mamma che ha appena realizzato uno dei sogni della vita? Cosa ci può essere di più tenero per non dimenticare una cronaca che diventa storia e una storia che non si è arenata in una fredda cronaca di fatti e parole? Mamma Katerina e Lucia hanno fatto vincere anche il sentimento. Quello più inesplicabile per qualunque atleta. Ancora un mondo in rosa che si prende la parte, così come voleva questa olimpiade srotolatasi nel nome della donna: la Belmondo che accende il tripode, Carla Bruni che porta la bandiera, Sofia Loren e le altre signore famose che reggono il vessillo olimpico, noi che lasciamo la bandiera fra le mani di Carolina Kostner, la centesima medaglia azzurra nelle mani di quattro ragazze, i drammi agonistici (pattinaggio e bob soprattutto) quasi tutti al femminile. Inchiniamoci alle quote rosa. Ed anche a Lucia, quella bimba entrata di prepotenza nella foto dei Giochi come fosse Fauner nello sprint da stretta al cuore di Lillehammer 94 o Olga Korbut, la bambina sullasse di equilibrio che folgorò tutti nellOlimpiade di Monaco 72.
Non ci sono Giochi senza foto didentità: Monaco 72, a dispetto dei suoi meravigliosi protagonisti, avrà come dolorosa icona quellincappucciato che sbucava da un balcone con il mitra fra le mani ad annunciare la tragedia che avrebbe ucciso 18 persone, fra le quali undici atleti israeliani. Così come Mexico 68 fu il pugno chiuso sul podio di Tommie Smith e John Carlos. Berlino 36 nel nome di Jessie Owens, il nero che vince davanti a Hitler. I ricordi, come le foto, possono essere qualcosa di oggettivamente inarrivabile (Heiden, il pattinatore, Spitz, il nuotatore, Sailer, lo sciatore, fotografati con cascate di medaglie al collo) o qualcosa di sentimentalmente indimenticabile: il bacio di Dana Zatopek, oro nel giavellotto, a Emil, che era suo marito ma anche il campione dei campioni di 5000 e 10mila metri in quellOlimpiade di Helsinki 52. Possono rappresentare una crisi di popolo (a Nakano si spensero milioni di sorrisi giapponesi per un saltatore finito quarto) o una luce negli occhi: lincredulità di Hicham El Guerrouj davanti alla sua seconda medaglia doro olimpica, gli sguardi a palla di fuoco di Donovan Bailey (Atlanta 96) e di Justin Gatlin (Atene 2004) dopo la vittoria nei 100 metri.
E chi mai dimenticherà quel Dorando Petri stralunato sul traguardo di Londra 1908 o Abebe Bikila a piedi scalzi nella notte romana del 1960. I lievi volteggi di Katarina (un nome, una garanzia di successo) Witt ci hanno illuminati da Sarajevo a Calgary, come la sua bellezza. La foto è un attimo di vita, lOlimpiade dura uneternità e così pure protagonisti ed emblemi. Dite Innsbruck e focalizzate quel trampolino che si stagliava sulla città.
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