C'è lo stesso Dna su tre buste inviate con un proiettile serie H nell'ottobre 1985 ad altrettanti magistrati che indagavano sui delitti del mostro di Firenze. C'è un misterioso dossier dei carabinieri su un furto di cinque Beretta calibro 22 in un'armeria nel 1965. E c'è un uomo castano-rossiccio di un metro e ottanta visto da alcuni testimoni prima degli omicidi di Claudio Stefanacci e Pia Rontini del 1984. Sono le tessere dell'intricato puzzle cui lavora da tempo Paolo Cochi per dare un volto al serial killer che terrorizzò la Toscana per 17 anni.
Tre documentari dedicati al mostro, un monumentale libro di oltre 500 pagine sul caso, vent'anni trascorsi nello studio della vicenda, dal 2020 Cochi è anche consulente dell'avvocato Antonio Mazzeo, legale di Rosanna De Nuccio: «Si tratta della sorella di Carmela, assassinata dal mostro insieme al fidanzato Giovanni Foggi nel 1981». Così ha potuto consultare anche i recenti atti, finché ha potuto, su piste trascurate e documenti dimenticati. Perché sugli omicidi delle coppiette ammazzate dal 1968 al 1985 nelle campagne toscane usando sempre la stessa Beretta calibro 22 e sparando proiettili Winchester serie H, il sipario non è mai calato: non dopo la fine di Pietro Pacciani, morto in attesa di giudizio; non dopo le condanne definitive dei compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti. E certamente non è mai calato sull'omicidio di Carmela e Giovanni: «Uno dei tre duplici delitti del mostro rimasti irrisolti». Non è un caso che le indagini non si siano mai fermate. La versione ufficiale che ha retto i processi sui guardoni poggia sulle confessioni del «pentito» Lotti. Ma il suo sgangherato racconto sull'ultimo duplice delitto è oggi smentito da prove scientifiche: «Non solo le larve di mosca sui cadaveri dimostrano che gli omicidi sarebbero avvenuti almeno un giorno prima di quanto confessato da Lotti, ma cinque medici legali cui ho fatto analizzare foto e consulenze autoptiche hanno dato per certo che le condizioni delle vittime erano incompatibili con una morte recente».
C'è infine un dettaglio degli ultimi anni: una perizia balistica firmata da Paride Minervini avrebbe acclarato che il proiettile trovato nell'orto di Pacciani, unica vera prova che lo collegava alla scia di sangue, è un falso, costruito ad hoc in laboratorio. I protagonisti sono morti, nessuno può chiedere la revisione. Ma il giallo resta. Chi era allora davvero il mostro di Firenze?
IL DOSSIER PROIBITO
Quando Cochi, come consulente dell'avvocato Mazzeo, chiede l'accesso agli atti del processo Pacciani, vi trova un dossier dei carabinieri di 50 pagine che parte dagli anni '60 e arriva al 1985. Al centro c'è il furto in un'armeria di cinque pistole Beretta nel 1965: «Quattro furono ritrovate, mentre una Beretta 22 serie 70 no. Perquisirono vari soggetti vicini al mondo della criminalità organizzata e a uno di loro trovarono in casa due bossoli Winchester serie H». Arma e munizioni come quelle del mostro. «Quest'uomo risultò negli anni essere stato denunciato per reati contro la libertà sessuale, poi finì dentro per truffa e resistenza. I carabinieri lo ritenevano il possibile serial killer, ma inspiegabilmente quando nacque la Squadra Anti Mostro, la Sam, il suo nome non venne inserito tra le centinaia di nomi da cui spuntò quello di Pacciani. Cercarono allora i due bossoli sequestrati, ma in cancelleria risultarono non reperibili». Dossier alla mano, l'avvocato Mazzeo chiede a quel punto alla Procura un approfondimento su vari punti della questione «anche perché tale persona sembrerebbe aver lavorato in ambienti giudiziari e più specificatamente, in Procura con un noto magistrato. Questo dopo la fine dei delitti, secondo quanto riferito da alcuni suoi stretti parenti. Ovviamente ciò può essere documentato precisa Cochi - per quanto sembri surreale dato il suo curriculum». Di fatto, poco dopo gli viene revocato ogni accesso agli atti con la motivazione che «erano inerenti ad altri fatti reato». Una decisione spiazzante perché «i delitti delle coppiette sono stati sempre trattati sia nelle investigazioni che giudiziariamente come unico fascicolo e quindi legati tutti tra loro». Inutili risulteranno due interrogazioni parlamentari al ministro della Giustizia Cartabia.
Eppure questa e altre piste investigative potrebbero legarsi al Dna trovato sulle buste di tre lettere di minacce inviate ai magistrati che indagavano sul caso: Canessa, Vigna e Fleury. Lo ha scovato il genetista della procura Ugo Ricci: «Le lettere a Canessa e Fleury furono recapitate quasi certamente a mano in Procura il primo ottobre 1985, venti giorni dopo l'ultimo duplice delitto dei francesi, quella di Vigna arrivò qualche giorno più tardi: recava il timbro postale, ma non il francobollo. Dentro erano tutte uguali: c'era un proiettile infilato nel dito di un guanto chirurgico e un foglio scritto a macchina con la frase: Poveri fessi, uno a testa vi basta?». E chi, naturalmente, meglio di uno che lavorava in ambienti giudiziari avrebbe potuto portare a mano quelle lettere di minaccia? «Sulle buste non c'erano impronte digitali e sono le uniche tre, tra migliaia, su cui la procura abbia mai focalizzato l'attenzione a parte quella certamente scritta dal mostro e inviata con un lembo di seno di Nadine Mauriot al magistrato Silvia Della Monica. Il Dna arrivava dalla saliva, è lo stesso per tutte e tre le lettere e secondo la genetista che ho consultato, Marina Baldi, sarebbe oggi possibile ricostruire colore degli occhi, dei capelli e l'etnia della persona cui appartiene quel codice genetico».
Già, perché di chi fosse quel Dna non si è mai saputo: è stato confrontato con tutti gli indagati dell'inchiesta, da Salvatore Vinci nell'abbandonata pista sarda a Pacciani, ai compagni di merende, dal medico perugino Francesco Narducci agli ultimi due entrati e usciti dall'indagine, l'ex legionario Giampiero Vigilanti e il medico Francesco Caccamo. Non appartiene a nessuno di loro. Di chi è, dunque?
L'UOMO DAI CAPELLI ROSSI
L'ultima tessera del puzzle che Cochi sta allestendo riguarda un uomo coi capelli castano-rossicci, robusto e di circa un metro e ottanta: «Quando chiedemmo l'approfondimento sul dossier dei carabinieri, aggiunsi, tra le altre richieste, quella di un Vhs giunto in Procura riguardante una trasmissione Rai cui aveva partecipato Vigna con lo sfondo musicale di Anna, di Lucio Battisti». Il motivo? «Anna è il nome della testimone che ho ritrovato e a cui fu dato un passaggio da un uomo rossiccio, robusto e alto un metro e ottanta circa. Era passato poco dall'ultimo duplice delitto dei francesi Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili agli Scopeti, e l'uomo le chiese se non avesse paura del mostro. Le disse anche che il serial killer aveva inviato un pezzo di seno della donna e una lettera a Silvia Della Monica. Solo che in quel momento non lo sapeva ufficialmente nessuno, a parte quelli che indagavano, la notizia uscì sui quotidiani il giorno dopo l'autostop». Chi è l'uomo rossiccio e robusto che diede il passaggio ad Anna? «Ecco, questo è il punto. Visto che la Procura ci negava gli atti, ho cercato e rinvenuto un photo-fit dell'epoca realizzato dai carabinieri su un uomo visto sulla piazzola degli Scopeti qualche giorno prima dell'omicidio dei francesi. L'ho mostrato ad Anna, la quale ha notato una certa somiglianza con quello dell'autostop». Non solo. «L'anno precedente, dopo gli omicidi di Pia Rontini e Claudio Stefanacci a Vicchio, era stato stilato lo schizzo di un identikit sulla base delle affermazioni di un barista, Baldo Bardazzi. Questi aveva raccontato che poco prima di essere uccise le vittime si trovavano nel suo locale. E alle loro spalle c'era un uomo grosso, alto e rossiccio con i capelli rasati. Anche Bardazzi e pure una collega di Pia hanno notato come Anna una certa somiglianza dell'uomo che ricordavano con il photo-fit.
Se si tratti dello stesso uomo del dossier dei carabinieri e della medesima persona che inviò le lettere di minaccia ai magistrati non posso saperlo. Indagare spetterà alla Procura, visto che le parti civili non possono più accedere agli atti».
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