Non era lui il prescelto. «Jo» veniva prima, sempre, anche nella morte. Joseph Patrick junior, il primogenito. Quello che avrebbe dovuto ereditare la fortuna dei Kennedy, sempre un passo avanti e soprattutto il più amato dal padre. Non a caso portava il suo nome. Solo che «Jo» non è mai tornato a casa. La sua anima è rimasta nella contea di Suffolk, con la sua bella divisa da aviatore, disperso da qualche parte sotto quel cielo, maledetto da «Aphrodite», il nome in codice della missione sperimentale. «Jo» volava su un BQ-8 imbottito di esplosivo, 10 tonnellate di Torpex, per sperimentare nuove strategie di bombardamento. Qualcosa andò storto nei circuiti di ricezione della radio, una scintilla e poi un boato. Non restò nulla da portare a casa.
È quel vuoto che John si ritrova a riempire, come un sopravvissuto, come una riserva, una sorta di pezzo di ricambio. Il padre avrebbe continuato a rimpiangere l'originale. La madre no, perché Rose lo ha sempre amato. Anche questo era scritto: John Fitzgerald. Il secondo era suo. La figlia del vecchio sindaco di Boston aveva dato il suo cognome come secondo nome. È da questa bizzarria che arriva l'acronimo che ha segnato il secolo americano.
«JFK» non ha usurpato la gloria del fratello. È tornato dalla guerra vivo e con una medaglia al petto, da marinaio, con un'impresa da raccontare come comandante di una torpediniera nel Pacifico. La nave viene affondata ma il tenente di vascello Kennedy nuotando senza sosta nella notte salva tutto il suo equipaggio. Nessuno resterà indietro. Questa storia verrà raccontata in lungo e in largo durante la campagna elettorale, con il padre a comprare sottobanco i voti di italiani e affini, più tutti quelli che avevano brindato agli anni ruggenti del proibizionismo. Non si fidava di quell'eroe sconfitto. Ecco, magari stanno proprio qui le radici di un mito, perché poi in soli tre anni JFK ha cambiato l'immaginario degli Stati Uniti d'America e di tutto ciò che gli girava intorno. È il passo dentro una nuova stagione, che si illude di dimenticare l'inferno della guerra e promette una vita da sogno per tutti quelli che hanno l'intraprendenza di crederci, con una ricchezza diffusa e protocollata, con una villetta a schiera in qualche quartiere residenziale e una colazione ricca di vitamine e una moglie sorridente e un futuro da disegnare con il libretto di istruzioni e l'inganno della scritta «Fai da te». Kennedy è una promessa di gioventù. Cosa resta di lui? Un caleidoscopio di immagini frammentate, la costruzione e la destrutturazione di un mito che segna le illusioni e le miserie dell'America, gli inganni e i segreti, i segreti e la voglia di aggrapparsi a una età dell'oro che luccica troppo per essere vera.
La scatola magica della tv, con il primo faccia a faccia elettorale in una democrazia che scopre il fascino dell'immagine. Richard Nixon sembra un cane bagnato, con il sudore che scende lungo la fronte e a poco vale la sua intelligenza politica, l'esperienza al fianco di Ike Eisenhower, la concretezza di chi non si fida di niente e di nessuno. Kennedy sorride e dissimula e conquista chi ha voglia di credere in un futuro di plastica. Il democratico JFK diventa il modello da seguire per i rampolli delle aristocrazie di tutto il globo. I pantaloni eleganti che arrivano alla vita e non ti tagliano il busto a metà, la camicia Brooks Brothers button-down, gli occhiali da sole per proteggere gli altri dal proprio sguardo, i mocassini Sebago che stanno lì a ricordarti che navigare necesse est. E poi tutto il resto, la bugia di una Camelot che sotto la tavola rotonda nasconde cinismo e strafottenza, gli intellettuali che giungono a corte e poi le feste con la combriccola di Sinatra, che si porta dietro l'ombra di Sam Giancana e quel patto non scritto che ha consegnato all'America il primo Presidente cattolico e irlandese. Lo sguardo senza sogni di Jacqueline, che recita a soggetto la parte della first lady e Marilyn, divina carne da macello, che sbuca dalla torta e sussurra, melodica, Happy Birthday Mr. President.
Kennedy non è stato il migliore dei presidenti. È la goffa disavventura della Baia dei Porci. È portare l'umanità ai confini della guerra nucleare. È l'ottimismo senza ragione. È la scelta di portare la gioventù che rappresenta nel fango del Vietnam. C'è qualcosa di indelebile che però ha lasciato ai posteri. È una terra immaginaria che fonda la sua identità sui pilastri della libertà e della democrazia. È la promessa di un sopravvissuto che ha incrociato la morte troppo presto in un pomeriggio di Dallas.
L'omicidio lo consegna alla leggenda, ma prima di questo c'è, in quel tragico 1963, un discorso di primavera di fronte al Rathaus Schöneberg, lì dove c'è il municipio di Berlino: «Ich bin ein Berliner». È lì che i due continenti legati dall'Atlantico si riconoscono. È quel giorno che si vedono Occidente.
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