Müller: «Ecco perché ho rifiutato Spike Lee De Niro e Al Pacino»

da Venezia

Offre ai giornalisti biscottini da intingere nel «cordiale». Le polemiche della vigilia fanno bene a Marco Müller, direttore della Mostra al suo secondo quadriennio. Sempre di nero vestito, ha ribattezzato «nomade» e «incantatrice» l’edizione - la 65esima - che parte stasera con Burn after reading dei fratelli Coen. Ma non ci crede nemmeno lui.
C’era proprio bisogno di riaprire le ostilità col festival di Roma? Eppure Rondi è un suo estimatore, benché le abbia dato del lupo.
«Gian Luigi è il maestro di tutti noi. Uno straordinario costruttore di festival, un grande vecchio. Lo ringrazio per le parole gentili. Ma proprio per l’esperienza ricca e variegata che custodisce dovrebbe sapere che se annunci una rassegna di anteprime internazionali, be’, allora le anticipazioni devono corrispondere».
Sarà, però lei insiste. Dice che «il secondo festival più importante, dopo Venezia, è quello del muto a Pordenone». Non Roma o Torino...
«Confermo. Lo chieda a John Landis, giurato qui a Venezia. Pordenone è un appuntamento imperdibile sul piano internazionale. Ti costringe a revisioni continue della storia del cinema».
Vabbè. Avrà letto Der Spiegel. L’accusano di aver fatto una Mostra troppo «patriottica», Celentano avrebbe «un volto equino».
«Mi pare un articolo fesso. Il programma sta lì. Su 55 film della selezione ufficiale solo 8 sono italiani. Dov’è lo scandalo? Nei 4 in concorso? È già successo nelle Mostre dirette da Biraghi, Pontecorvo, Barbera, perfino a Cannes. Il settimanale avrebbe fatto bene a sfoderare un pizzico di orgoglio nazionale. In fondo erano anni che non si vedevano due registi tedeschi in gara: Christian Petzold e Werner Schroeter».
Chi c’è e chi non c’è.
«Noi siamo molto selettivi, cerchiamo di costringerci a ragionare mentre scegliamo. Anche se le emozioni, di fronte a un film, sono tutto per noi. Toronto fa una scelta diversa: privilegia l’offerta a largo raggio, propongono di tutto. In questo momento sono loro ad aver paura di noi. In ogni caso, chi manca è perché non aveva il film finito. Ho qui un mucchio di mail, se vuole gliele mostro. Non erano pronti per Venezia Doctor Parnassus di Terry Gilliam, la rinuncia più dolorosa, Milk di Gus Van Sant, W. di Oliver Stone, The spirit di Frank Miller. Mi hanno spiegato, ho capito. Lo sciopero degli sceneggiatori ha ritardato tutto».
Però Toronto avrà Miracolo a Sant’Anna, l’atteso film italiano di Spike Lee...
«L’abbiamo visto. Direi questo: è giusto che abbia la sua anteprima in un contesto squisitamente americano».
Risposta sibillina. E che mi dice di Righteous kill, il poliziesco con la supercoppia De Niro-Pacino?
«No comment (fa una smorfietta di disappunto, ndr). Magari funzionerebbe bene per il festival di Roma, dove danno un premio a Pacino. Sempre che lo prendano».
Capito. Altra accusa: la Mostra spartita tra Raicinema e Medusa.
«Sciocchezza. Quando Pasquale Scimeca invita al boicottaggio perché saremmo succubi del duopolio viene il dubbio che lo dica solo perché ha saltato un turno rispetto ai finanziamenti pubblici».
È vero che ha preso le distanze da Venezia ’68, il documentario di Sarno e Della Casa sulla contestazione al Lido?
«Ma no. Sarno frequenta con ammirevole ostinazione gli archivi cinetelevisivi. Il suo film è piacevole, si incastra bene nella programmazione. Ma sapeva sin dall’inizio che non potevamo aprirci. Del resto, il lavoro vero sul ’68 lo fece Laudadio con un libro di Cosulich e una rassegna itinerante. Ciò detto, non ho nessuna difficoltà a riconoscere che il ’68 a Cannes fu un momento insurrezionale vero, annullò un festival dalla programmazione frastagliata. A Venezia no. La Mostra di Luigi Chiarini era una finestra sul cinema in trasformazione. C’erano Pialat, Kluge, Cassavetes, Pasolini, Bertolucci... Non mi ritrovo in quella contestazione. Servirono 11 anni per rilanciare la Mostra».


Lei è sinologo, sono appena finite le Olimpiadi...
«Infatti il primo film sorpresa è cinese. E sa perché è a sorpresa? Perché è vietato in Cina, dove permane la censura, insieme a tanti altri che disturbano la visione “armonistica” di quella realtà».

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