«Macché disarmati, sparavano dai boccaporti»

Come capita molto spesso nelle famiglie israeliane, la storia e le esperienze dei padri finiscono col coinvolgere anche i figli. Il mio amico Hfrem, autorevole giornalista di un importante quotidiano di Tel Aviv, nell'ottobre del 2000, mentre era impegnato come ufficiale della riserva nei territori palestinesi, si trovò a vivere l'orrore di Ramallah, quando due giovani riservisti disarmati vennero catturati, letteralmente massacrati di botte e i loro corpi maciullati furono gettati da una finestra della locale stazione della polizia palestinese, sotto l'occhio delle telecamere.
Un orrore indicibile, una barbarie e uno scempio inammissibile per chiunque, tanto più inaccettabile per la cultura e la religiosità ebraica. E quello stesso incubo ha avvolto lunedì notte Itai, il più giovane dei figli di Hfrem, incursore dell'S'13 (HaShayetet, le forze speciali della marina israeliana).
«Vedevamo attraverso i binocoli all'infrarosso le navi avvicinarsi, incuranti dei nostri avvertimenti», racconta Itai, rileggendo l'ultimo appello radio del suo comandante: «Nave Mavi Marmara, vi state avvicinando a un'area di ostilità che è sotto blocco navale. L'area di Gaza, la regione costiera e il porto di Gaza sono chiusi a tutto il traffico marittimo. Vi invitiamo a dirigervi immediatamente verso il porto di Ashdod, per i controlli del vostro carico, dopo di che la consegna delle forniture umanitarie avverrà attraverso i valichi ufficiali via terra, e sotto il vostro controllo». La risposta è stata: «Negativo, negativo. La nostra destinazione è Gaza. Nessuno ci fermerà».
«Da quel momento - prosegue Itai - tutto si è accelerato, ci siamo imbarcati sugli elicotteri con il preciso ordine di abbordare la Mavi Marmara e di convincere, ma senza alcun atteggiamento aggressivo, il comandante a fermare subito le macchine. In ogni caso non eravamo autorizzati a fare ricorso alle armi, se non in caso estremo. Il mio team aveva fucili caricati con proiettili di gomma e gas antisommossa».
«Quando siamo arrivati sulla verticale della Mavi Marmara abbiamo visto che la nostra prima squadra che si era calata sul ponte era letteralmente circondata da decine di individui armati di spranghe di ferro, coltelli, asce, catene, una folla urlante che aggrediva i nostri soldati con una violenza spaventosa. Abbiamo visto lanciare oltre la murata uno dei nostri, non sapevamo se era vivo o morto. Tre commilitoni giacevano sul ponte, in una enorme pozza di sangue, nonostante fossero esanimi continuavano ad essere brutalmente picchiati con degli idranti. A quel punto siamo intervenuti, ci siamo calati sul ponte e lì abbiamo visto che il gruppo dei cosiddetti pacifisti era molto numeroso e ben organizzato».
Itai, che finora ha parlato tutto d'un fiato, fa una lunga pausa. Per poi riprendere: «Ho avuto la sensazione di rivivere l'incubo di mio padre, il linciaggio di Ramallah. Ognuno dei miei compagni appena calato dall'elicottero veniva circondato da tre o quattro di loro, lo afferravano, lo isolavano in un angolo della nave e quindi lo picchiavano selvaggiamente, altri cercavano di trascinare i nostri sotto coperta. Come tutti quelli che erano scesi con me, eravamo a mani nude coi nostri fucili caricati con proiettili di gomma».
«Ho cercato di impugnare il mio fucile ma un colpo ha spezzato la mano che teneva l'arma, poi hanno iniziato a spararci addosso con armi da fuoco, erano proiettili veri e provenivano da vari boccaporti della nave. Ho impugnato la pistola con la sinistra e ho sparato in quella direzione. Poi ho visto calare dall'alto decine di miei commilitoni...

Altro che pacifisti: quelli sono chiaramente dei provocatori, organizzati, venuti per attaccarci, ed io...».
Hfrem interrompe con un sorriso dolce il figlio, invitandolo ad andare a riposare. «Sai - mi dice -, si deve riprendere dallo shock, sapessi quanto ci ho messo io dopo Ramallah...».

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