Macché Europa e Coppe, qui quello che conta è sempre e solo il derby

Ma ora preoccupano le infermerie affollate Capitolo portiere: speriamo che Curci si rimetta

Macché Europa e Coppe, qui quello che conta è sempre e solo il derby

Gira e rigira, qui è sempre derby. Che accanitamente ricomincia alla pari dal 7° gradino della classifica a quota 11 - a un punto dal 6° e due dal 4° - dopo l'«ottava» di campionato. Alla luce del faticoso successo ottenuto dal Genoa sul Catania e del brillante pareggio conquistato dalla Sampdoria in casa Inter, ribadisco quanto ho scritto giovedì scorso: sono un genovese verace, vedo calcio a Marassi (e fortunatamente dintorni) da sessant'anni e dunque al di là di ogni ipocrisia conosco perfettamente l'aria che tira e so bene dove qui si vada inevitabilmente a parare. Sennò perché il nostro calcio di «seconda fascia» registrerebbe globalmente 40 mila abbonati allo stadio in una città di 600 mila abitanti, confermando stabilmente il record assoluto nazionale alla voce «percentuale»?
Si è detto e scritto - e anch'io l'ho detto e scritto - che il match di Coppa con il Metalist fosse più importante di quello di campionato con l'Inter e dunque che Di Carlo anziché concedere salutare tregua agonistica a Palombo e Pazzini avrebbe dovuto portarli in panchina a Kharkiv e impiegarli nell'ultima mezz'ora di partita, per portarsi via il punto della probabilissima qualificazione nella fase a gruppi di Europa League. Ma sotto sotto nessuno ignorava che in tal caso il Genoa, staccato in classifica di 2 punti, prendendone «in qualche modo» 3 contro il Catania avrebbe «quasi certamente» scavalcato di botto una Sampdoria vinta dalla stanchezza - oltre che dalla superiorità tecnica dell'Inter - a San Siro. E le preponderanti visceralità da bar, da schermo, da foglio e dintorni, delle quali si sta da tempo lamentando Gasperini, si sarebbero fastidiosamente trasferite dalla casa rossoblu a quella blucerchiata.
Parliamoci chiaro: qui tutti facciamo finta di continuare a condividere in pieno il manifesto programmatico di Paolo Mantovani («I nostri avversari da battere sono oltre Appennino ed è là che li dovremo stanare»), ma sappiamo che purtroppo quei tempi hanno fatto il loro tempo, sicché tanto vale adattarsi. L'orgoglio calcistico, ovunque spiccato in Italia, qui pretende la supremazia cittadina «a prescindere», senza se e senza ma, la fa da padrone più che mai. Bruciati dal «-16» del campionato scorso che lavava l'onta blucerchiata del precedente «-22», lo dissero chiaro e tondo Preziosi e Gasperini a commento della reboante campagna estiva di mercato: «Li rimetteremo sotto». Poi naturalmente, nel caso specifico, per supplemento d'orgoglio nei confronti del megapetroliere «bauscia» Moratti c'era da soddisfare quello del megapetroliere «sparagnino» Garrone, che con la sua collina di milioni di euro (140) costruita in 8 anni a pro della Sampdoria ha preso gusto a beffare (4 punti carpiti su 6 nel campionato scorso) la montagna (770 milioni di euro) gloriosamente eretta in 15 anni dal collega meneghino.
Ciò che allarma peraltro al momento, sui nostri due fronti, è l'infermeria. Nel Genoa, che ha mostrato direttamente a Prandelli un Dainelli un Criscito e un Ranocchia da Nazionale, c'è una morìa che ricorda le mosche alla fine d'ottobre. Passi per la distorsione traumatica alla caviglia di Veloso, ma come la mettiamo - nell'ordine - con i gravi malanni ai flessori di Palacio e Kharja, al polpaccio di Sculli e all'adduttore di Palladino nel giro di 10 giorni? Rafinha, purtroppo diffidato come Milanetto, s'è adattato discretamente all'emergenza di centrocampo, ma l'unica giocata importante (servizio-gol per l'intramontabile capitan Marco Rossi) è riuscito a farla, dalla fascia destra, nel breve tratto in cui Gasperini è passato al «4-4-2»: peraltro subito abiurato. Ma Toni ha bisogno d'aiuto ravvicinato per non limitarsi a prendere più botte che l'orso, fatalmente isolato tra le grinfie di due o tre difensori, sconsolatamente impossibilitato a incidere sul risultato. A cominciare dall'anticipo di venerdì sera contro l'Inter a Marassi, riusciranno a dargli sostanziosamente una mano i giovani «reduci» Rudolf e Destro? E soprattutto, medici e preparatori atletici riusciranno a battere in tempi ragionevolmente brevi l'incomprensibile emergenza sanitaria che sta devastando lo spogliatoio rossoblu?
Emergenza che sul fronte blucerchiato obiettivamente si limiterebbe al ginocchio destro di Lucchini (egregiamente sostituito da Massimo Volta che domenica vivrà l'emozione della rimpatriata a Cesena) e alla caviglia destra di Semioli (che l'infaticabile ucraino Vladimir Koman non sta facendo rimpiangere nemmeno un po'), non fosse che è scattato l'allarme rosso per il polpaccio destro di Gianluca Curci, un portiere che sempre più convincentemente si conferma degnissimo erede di Storari. Questo ricordo alla massa dei detrattori «ante litteram» che salutarono il suo arrivo alla corte di Di Carlo alla stregua di una sciagura universale. E non volevano sentir ragione. Curci ha dimostrato a San Siro, nel tempio dei campioni d'Italia e d'Europa, di saper essere il baluardo ideale di una squadra che Di Carlo si è infine saggiamente convinto a schierare col modulo tattico del «4-4-2» cui Beppe Marotta aveva predisposto l'organico (completato da Gasparin con complementari forze fresche «di casa» del valore di Volta Koman Marilungo Dessena e Objang) a pro del gusto calcistico di Gigi Del Neri. Ho visto all'opera il portoghese Angelo Esmael Da Costa e sono rimasto basito.

Non tanto per l'eurogol subito a freddo dal monumentale Eto'o, quanto per quella goffa respinta di ginocchio in mischia e quell'inqualificabile caduta all'indietro sul colpo di testa di Maicon. Capisco che fosse emozionato, e lo giustifico perché non voglio far la figura di quanti criticavano Curci «a prescindere»: ma vivamente spero che il malanno del portiere titolare si riveli meno grave del previsto.

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