«Sono responsabile dei crimini, delle esecuzioni, delle torture. Provo tanta vergogna e rimorso. Permettetemi di chiedere perdono ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime». Kaing Guek Eav, uno dei “macellai” dei khmer rossi, sembra tremare mentre legge queste parole davanti alla Corte straordinaria, voluta dall’Onu, che lo sta processando a Phnom Penh. Trent’anni dopo è il primo esecutore del genocidio cambogiano alla sbarra che ammette le sue terribili colpe. Quando si faceva chiamare “Compagno Duch”, fra il 1975 ed il ’79, ha seminato morte e terrore come direttore del famigerato lager per gli interrogatori conosciuto con la sigla S-21. L’ex liceo di Tuol Sleng trasformato dai khmer rossi nell’anticamera dell’inferno. Nel lager morirono 14mila persone.
«Sono responsabile per i crimini commessi a S-21, in particolare per l’esecuzione e le torture dei prigionieri» ha ammesso Duch. Lunedì scorso è apparso davanti alla Corte in camicia bianca con le maniche corte, capelli grigi ed un paio di occhialini. Nei primi due giorni di un processo atteso da 30 anni ha confessato l’orrore del genocidio cambogiano che è costato la vita ad almeno 1 milione e 700mila persone (3 milioni secondo altre stime). Nella sala delle udienze è sceso un silenzio di tomba quando ha chiesto «scusa dal profondo del cuore per chi è morto brutalmente a S-21». Del lager degli orrori solo 12 detenuti sono sopravvissuti. In aula c’erano i parenti delle vittime. «Vorrei che mi perdonaste. Non vi chiedo di farlo ora, ma spero che avvenga più in là», ha esclamato l’ex torturatore.
«L’ho fatto perché avevo ricevuto gli ordini dell’Angkar» ha sostenuto Duch davanti ai giudici. L’Angkar era il partito guida ideato da Pol Pot nel suo folle disegno di cancellare la società cambogiana per farla “rinascere” dall’“anno zero”. Bastava portare un paio di occhiali o conoscere una lingua straniera per venir denunciato come reazionario borghese. Se eri fortunato venivi deportato verso i killing fields, i campi di lavoro che ingoiarono milioni di cambogiani. I più sfortunati finivano a S-21, dove li attendevano Duch e una morte certa. «Anche se sapevo che gli ordini erano criminali non li ho mai messi in discussione – ammette l’imputato – perché la mia famiglia ed io avremmo rischiato di venir uccisi».
Il pubblico ministero, Robert Petit, ha dimostrato come gli internati di S-21 erano costretti a confessare crimini inesistenti. Delle fosse che si riempivano d’acqua piovana servivano a far annegare i prigionieri. Le povere vittime venivano appese al soffitto e bastonate a morte. Applicare degli elettrodi agli organi genitali o strappare le unghie dei detenuti, legati a brande di ferro, erano altre torture comuni. Neppure i neonati dei “nemici del popolo” venivano risparmiati.
Duch li faceva gettare giù dalle scale affinché si rompessero l’osso del collo. Un testimone ha ricordato come l’imputato seviziò con la corrente elettrica una donna per poi picchiarla fino a quando fu esausto. www.faustobiloslavo.com- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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