La magia del football da strada

La nostalgia del calcio da cortile, quello che si giocava da bambini, con le porte improvvisate e la conta per le squadre. Storie, racconti e romanzi di quando il pallone era un Super Santos

Lo chiamavano i cappuccini, perché lì un tempo c’era un convento di frati. Era solo un cortile, quattro lati tagliati male, da una parte la scuola elementare, di fronte un cancelletto di ferro, che serviva da porta, con le traverse ad angolo, ai lati un muro e una ringhiera. Era tutto qui, con il terreno di gioco di cattivo cemento e la breccia finissima nelle zone più consumate. In quei punti di solito si scivolava.

La prima partita cominciava verso le sette e trenta, prima della campanella. Ed è stata l’ultima volta nella tua vita che sei arrivato da qualche parte in orario. Era poco più di un riscaldamento. Alle due e mezza del pomeriggio si giocava qualcosa di più serio, qualche volta si riusciva a mettere su una squadra di cinque contro cinque, ma d’estate quasi sempre ci si riduceva a poche anime con i portieri volanti. La partita seria era quella che si giocava alle quattro d’inverno e dopo le sei d’estate. Qui c’erano quelli più grandi, gente di quattordici o quindici anni e, perfino, qualche diciottenne che non riusciva a dimenticare il passato.

Queste erano partite quasi senza spazi, si arrivava a giocare come nei campi veri, undici contro undici e anche di più. La parità era una possibilità, non una regola. Nulla nelle giornate più affollate ci si poteva ritrovare anche in impensabili duelli 13 contro 12. Chi arrivava entrava. Quando davvero la capienza superava le leggi della fisica e della geometria si aspettava che i più anziani, dopo una mezz’oretta di tocchi e fucilate, prendessero la camicia lasciata sulla ringhiera e, con il petto nudo di sudore, se ne andassero via. “Basta”. “Oh entra tu? Ti va di giocare no?”. Questo era il tuo Maracanà. Era San Siro e l’amore per una Milano interista che non avevi mai visto e sognavi un giorno di incontrare. Non ricordi quanti gol hai segnato qui. Sicuramente più di mille.

Oggi una cosa del genere la chiamerebbero street soccer, o football bailado, calcio da cortile, allora era solo una partita di pallone. Funzionava più o meno così. Il paese è ben nascosto in una valle dell’Appennino, lì dove finisce il Lazio e comincia il parco nazionale d’Abruzzo. Una ventina di chilometri più su rischi, ma solo se hai bevuto molto o sei fortunato, d’incontrare lupi e orsi. Ci si vedeva a un’ora casuale (bastava regolarsi con il sole) allo chalet dei platani, di fronte alla scuola dei cappuccini e si sta lì a non fare nulla. Poi qualcuno diceva: partita? E cominciava la colletta. I palloni non duravano mai più di una settimana. Alcuni finivano al di là della strada, oltre la piazza, e scivolavano giù lungo la collina, troppo veloci da raccogliere. Altri li sequestrava il maresciallo della caserma, che aveva un biglietto in prima fila sullo stadio, ogni volta che qualcuno centrava una finestra della scuola o l’insegna della farmacia. E questo capitava con una regolarità disarmante (più la finestra che l’insegna).

Quando c’erano un po’ di soldi si comprava il Super Santos, il pallone ideale, non troppo leggero, rimbalzo regolare, per niente duro. Quando andava male c’era il Super Tele, una vela al vento, tiravi e zigzagava come un petardo impazzito. L’idea di comprare il Tango era davvero malsana, costava troppo e andava bene sull’erba, ma sul cemento rimbalzava come una pietra. Niente scarpini o pantaloncini, Ognuno veniva come si trovava: mocassini, scarpe con fibia, scarponi, stivali El Charro o Camperos, qualcuno riusciva a palleggiare con gli stivaloni da nazi con la punta troncata e piatta. Erano ottimi per le punizioni di punta. Un certo Bollino, buon cursore di fascia, veniva con camicia e giacca bianca , pantaloni neri e scarpe consumate che partivano puntualmente ad ogni tiro da lontano. Era la sua specialità. Il portiere si abbassava per evitare il tacco in fronte e la palla passava. Bollino lavorava come cameriere nel ristorante del fratello. Non correva, ma pattinava su questi mocassini neri da cerimonia a lunga gittata. Ai cappuccini le regole erano poche. Una su tutte: solo il portiere può usare le mani. Il resto era al raro buon cuore degli avversari.

Era un po’ come l’hockey, gomitate, calci, sgambetti, testate, quasi tutto era permesso. Valeva il batti muro, ottimo per triangoli in velocità. Quando la palla finiva in un angolo e due persone se la contendevano per qualcosa come una manciata di secondi, qualcuno gridava mucchio e quando si giocava a posti esauriti era uno spettacolo. Tutto in massa si dirigevano nell’angolo e lì partivano botte, calci e ginocchiate sui muscoli della coscia o al basso ventre. Chi restava in piedi conquistava la palla. Qui non ti allenavi a correre e neppure a lanciare, ma negli spazi brevi diventavi un drago. Dribbling stretti, scambi serrati, velocità sui cinque-dieci metri, spunto da punta, marcature a uomo. E una buona manciata di lezioni di vita. Era il 1980 e avevi 12 anni. Gli europei si svolgevano in Italia. Era una squadra sventrata dallo scandalo scommesse. Arrivammo quarti, sconfitti dalla melina del Belgio e dai rigori ad oltranza contro la Cecoslovacchia. L’ultimo lo sbagliò Collovati. Tu ti eri conquistato il diritto di giocare con i grandi, nelle sfide estive del dopo cena, ventiquattro mesi prima, con i mondiali d’Argentina.

Tutti, in quel anno desaparecido, avevano un nome: Passerella, Kempes, Haan, Rob Rensenbrink, il vecchio Lato, lo scozzese Kenny Dalglish il peruviano Teófilo Cubillas. Tu ti sentivi il numero dieci ungherese Nyilasi. E ti piacevano i tunnel. Attività pericolosa, Non è importante come li fai o se li sai fare, ma a chi li fai. Di Bona aveva quattro anni più di te, ed era il più duro di tutti, giocava libero con una certa classe, lo chiamavano Bonhof, come il tedesco erede di kaiser Franz Beckembauer. Lui era uno così. Gli arrivi davanti e lo infili, swop, palla che passa leggera tra le gambe. Lui si avvicina, ti accarezza la testa e dice: “Non ci provare più”. Ti arriva un’altra palla, tu parti in dribbling, e te lo ritrovi davanti, mostra le gambe leggermente aperte quasi a sfidarti. Fare un tunnel è un orgasmo irresistibile. Sai che rischi, ma non puoi dire di no. E allora di nuovo: swop. Questa volta Bonhof non dice nulla. Aspetta. Tu arretri a centrocampo con un po’ di paura. Qualcuno ti passa la palla. Sei di spalle alla porta avversaria. Non fai neppure in tempo a girarti e sei a terra. Stack.

Il male che senti è qualcosa di nuovo. Non riesci neppure a parlare.

Ti riportano a casa con il ginocchio rotto. L’ultima cosa che ricordi sono le parole di un tuo compagno di squadra, un certo Rocheteau: “Ben ti sta, così impari a passare la palla”.

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