C'è un filo sottile che lega Luigi Li Gotti, l'avvocato che con la sua denuncia ha fatto finire sotto inchiesta mezzo governo, allo Stato profondo, quello che non appare negli articoli della Costituzione, e che a volte conta più di quello ufficiale. È una rete di apparati, di amicizie, di interessi comuni, di incarichi, che dà la spiegazione di molte carriere. Come quella di Li Gotti, che da un borgo selvaggio come Mesoraca, perso tra i monti della Sila, arriva alla ribalta parlamentare, e ora a mettere a segno il primo colpo giudiziario contro il governo di centrodestra.
In mezzo, nella biografia di Li Gotti, c'è di tutto: il padre federale fascista, la gioventù nel Movimento Sociale, negli anni ruggenti della ribellione di Reggio Calabria, con i «boia chi molla» di Ciccio Franco a mettere a fuoco la città; e poi la laurea, la toga, i processi di mafia, la love story con Antonio Di Pietro, un altro che - ingiustamente, senza prove - è stato accusato di essere decollato da Montenero di Bisaccia con la benedizione del deep State. Il colpo di fulmine tra i due porta la data del 2001, ed è intenso nonostante i due partano da posizioni distanti: Di Pietro è l'unico a votare contro la legge che faceva uscire di cella i mafiosi pentiti, Li Gotti è l'avvocato del più crudele tra i beneficiari dell'innovazione, Giovanni Brusca. Quello del bambino nell'acido e del telecomando di Capaci.
A difendere un pentito di mafia si può capitare per caso. A difendere uno come Tommaso Buscetta, come Brusca, come un'altra schiera di «collaboranti», si arriva solo se si hanno buoni rapporti con il servizio centrale di protezione, con gli angeli custodi degli «infami». Ma la carriera di Li Gotti accanto allo Stato inizia ancora prima, quando - iscritto da pochi anni all'albo degli avvocati - assiste come parte civile i familiari della scorta di Aldo Moro, trucidata in via Fani. Nel collegio difensivo ci sono veterani della toga come Guido Calvi e Odoardo Ascari, e poi lui, il giovane e sconosciuto avvocato calabrese.
Da lì in poi, è un crescendo. È accanto alla famiglia di Luigi Calabresi nel processo agli assassini del commissario milanese (Adriano Sofri, principale imputato, gli diede del «teppista» e lo accusò di essersi «coperto d'infamia» nel corso delle udienze; Li Gotti sporse querela). E poi altri pentiti, altri poliziotti, sempre con la parcella a carico dello Stato. Battaglie giuste, battaglie scomode, come quando difende i poliziotti processati a Genova per il G8.
L'ascesa politica è parallela e speculare alla carriera legale, la prosecuzione con altri mezzi della stessa battaglia. Il cursus honorum è un lampo: responsabile giustizia dell'Italia dei Valori, senatore, sottosegretario alla Giustizia, convivenza non facile col ministro, Clemente Mastella, e soprattutto con l'altro vice, Luigi Manconi, già compagno di Adriano Sofri. Lui, Li Gotti, va per la sua strada, manettaro con i giornalisti, garantista con gli assassini redenti, si indigna se riarrestano il pentito Spatuzza, festeggia le condanne di Berlusconi, strizza l'occhio al grillismo nascente. Ma soprattutto resta fedele alla Procura di Palermo del decennio scorso, quella del suo grande amico Antonio Ingroia, quella che tanti clienti gli ha procurato, e alle sue teorie più ardite: come l'inesistente trattativa Stato-Mafia, l'indagine che porta a intercettare persino il presidente della Repubblica. Li Gotti che invece che con i pm se la prende con Napolitano, il presidente intercettato.
D'altronde anche quella inchiesta è un pezzo di Stato contro un pezzo di Stato, e in quei veleni l'avvocato di Mesoraca sa muoversi bene, lucido, efficace, intelligentissimo, amato e riamato dai giornalisti di giudiziaria, sempre pronto a offrire alle cronache un titolo che si fa leggere. Questa volta, va detto, ha superato se stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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