Il furgone, l'ufficio aperto, il dossier: nuovi dettagli sulla morte di Falcone e Borsellino

Ad Atreju, la presidente della commissione Antimafia, Chiara Colosimo, rivela nuovi dettagli sul dossier Mafia-Appalti e sul "nido di vipere" che era la procura di Palermo

Il furgone, l'ufficio aperto, il dossier: nuovi dettagli sulla morte di Falcone e Borsellino

Se la storia della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino andrà riscritta dopo quattro processi è merito della pervicacia dei familiari dei due magistrati come Lucia Borsellino, dell’avvocato Fabio Trizzino e della presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo che si è assunta questo gravoso impegno: arrivare dove la magistratura non è voluta (finora) arrivare.

Emergono nuovi, inquietanti episodi dalla memoria e a raccontarli dal palco della festa Fdi di Atreju nel panel «57 giorni nel nido di vipere: verità sulle stragi del ’92» (dove qualcuno come l’ex procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli non voleva che andasse) è la stessa Colosimo. È lei a rivelare il nuovo particolare dietro la strage, costata la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Il giorno prima della strage di Capaci, nei pressi di un cavalcavia adiacente il tratto d’autostrada fatto saltare in aria da Cosa nostra il 23 maggio 1992 «c’era un furgone targato Ravenna», e a poca distanza, in un terrapieno, «c’erano due uomini che armeggiavano con del filo probabilmente elettrico». A notare il furgone sarebbe stato l’imprenditore Francesco Flores Naselli, cognato del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, insospettito dal fatto che quel furgone fosse lì e non a Sciacca dove avrebbe dovuto essere. Naselli Flores controllò il mezzo, non trovandovi nessuno all’interno, ma nell’avvallamento poco distante notò due persone, una delle quali successivamente si sarebbe rivelata Santino Di Matteo, uno degli uomini che partecipò all’organizzazione della strage. In realtà la testimonianza del poliziotto, Roberto Di Legami era venuta fuori nel primo processo per la strage di Capaci. Eppure non è stato dato troppo peso a questa pista. «Per capire davvero su cosa si stava lavorando in quei 57 giorni, noi dobbiamo andare parallelamente su due filoni. Quello noto di mafia-appalti e quello di Massa Carrara, perché è da Massa Carrara che entra in gioco la Calcestruzzi spa».

Ma c’è un altro dato inquietante che la Colosimo rivela: la bomba in via d’Amelio, il 19 luglio 1992, è scoppiata alle 16.59, «ma quello che non si conosce è l’orario in cui vengono apposti i sigilli all’ufficio in procura di Paolo Borsellino: le 23:25», ricorda la meloniana. Dalle 17 alle 23.30 quell’ufficio è rimasto aperto «e noi non sappiamo chi può essere entrato e cosa può aver sottratto in quell’ufficio, ma sappiamo che cosa poi hanno repertato all’interno». E che cosa trovano? I verbali di collaborazione di Gaspare Mutolo, i verbali di Leonardo Messina, «che è uno dei primi collaboratori che ci dà delle informazioni importantissime», sottolinea la Colosimo.

Tutto ruota attorno al dossier Mafia-Appalti, ai rapporti tra Cosa nostra, le coop rosse e alcune aziende del Nord come la Calcestruzzi e Montedison che stavano investendo in Sicilia, affari su cui Falcone e Borsellino probabilmente stavano indagando o avrebbero voluto fare, ma il dossier invece finì archiviato dopo Ferragosto del 1992 (e il suo autore Mario Mori nella polvere per accuse rivelatesi false), a pochissimi giorni dalla morte di Borsellino attraverso Roberto Scarpinato, oggi parlamentare M5s. Sulla sottovalutazione di quella pista la Procura di Caltanissetta sta ragionando eccome, ha indagato a distanza di oltre trent’anni due mammasantissima dell’Antimafia come Gioacchino Natoli e l’ex procuratore capo di Palermo Giuseppe Pignatone, accusati di aver insabbiato il fascicolo per favorire due imprenditori in odore di mafia.

Tra le rivelazioni di Messina, anzi «la prima informazione», continua la Colosimo, è che c’era un uomo, Angelo Siino, il ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra «collaboratore per eccellenza di Totò Riina nella gestione degli appalti, cioè colui che andava dagli imprenditori per trattare per Cosa Nostra per cercare di gestire nel miglior modo possibile gli appalti. E in quegli stessi verbali che troviamo nell’ufficio di Borsellino Leonardo Messina ci dice che Totò Riina aveva un interesse sempre più crescente per la Calcestruzzi spa». C’è un imprenditore, Luigi Ranieri, «che si sottrae alla logica del tavolino». Ammazzato per questo, sappiamo che Borsellino la notte prima di morire aveva il suo fascicolo. Perché?

«Tra le agende c’è anche Aurelio Pino Napoleone (il primo imprenditore che decide di collaborare con la giustizia e che svela tutti i meccanismi di accordi tra Cosa Nostra e gli imprenditori) come molti nomi di politici e imprese che poi ritroveremo in Mafia-Appalti». È per quel dossier che sono morti Falcone e Borsellino? «Nelle sentenze c’è scritto che è un possibile movente dell’accelerazione dell’esecuzione della strage», invece questa verità processuale «è stata bypassata dicendo “siccome la verità processuale non mi piace vado a cercare altre verità”». A parlare ad Atreju è Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, che invoca il ritorno al «metodo Falcone e Borsellino», cioè ripartire dai dati processuali.

E se i nemici dei due giudici andassero cercati nel «nido di vipere» che era la Procura di Palermo, secondo una (in)felice espressione dello stesso Borsellino? Contro questa verità c’è chi si batte cercando di mascariare il lavoro della commissione Antimafia e il nome della stessa Colosimo: «Ho trovato degno di un Paese incivile la campagna di stampa che è stata fatta nei suoi confronti», sottolinea il legale.

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